In occasione del ritorno di Rocco e i suoi fratelli, Cinefilia Ritrovata comincia a pubblicare, spacchettati, i molti materiali preparati dalla Cineteca di Bologna, per valorizzarli e arricchire al meglio l’esperienza di visione, che si presenta imperdibile. Il restauro in 4K (di cui si può leggere un approfondimento qui) permetterà di gustare la versione più vicina a quella originariamente pensata e voluta da Visconti. Proprio per questo, a seguire troverete una lunga serie di interventi e documenti a ricostruire la vicenda della censura del film.

La scena della violenza? Avremmo dovuto farla all’Idroscalo, invece la girammo a Sabaudia, perché ci rifiutarono il permesso per questa scena violenta. E proprio il mattino in cui partimmo da Milano fu trovata una mondana uccisa con trentotto coltellate più o meno nello stesso luogo che avrebbe voluto utilizzare Luchino. Ci vollero tre giorni per girare il momento in cui io dò le coltellate, perché lui voleva la luce a cavallo, cioè del momento in cui il sole sta per andare sotto, che dura appena dieci minuti. Poi a oscurarla ci pensò la censura.

(Renato Salvatori)

Le cose sono andate così. Il soggetto e la sceneggiatura prevedono l’uccisione di Nadia da parte di Simone. Luogo del delitto è l’Idroscalo, e nel sopralluogo, avvenuto durante la preparazione del film, Visconti indicò, come scena di sfondo da riprendere, tutto l’arco dell’Idroscalo (lato sud). Inoltre fu concordato, per modificare l’ambiente naturale, di erigere lungo i contorni dello specchio d’acqua una lunga fila di pali (oltre cento, per una lunghezza di tre chilometri) con luci, e di costruire, nel punto preciso in cui l’azione principale doveva aver luogo, un chiosco di bibite. Poiché lo specchio d’acqua e la zona limitrofa sono sotto la giurisdizione di tre comuni (Milano, Linate e Segrate) e dell’Aeronautica Militare, innanzitutto la produzione prese contatti con il Comando Aeronautico. […] Sistemata la ‘faccenda militare’ si pensò, quasi contemporaneamente, ai permessi che dovevano essere ottenuti dai comuni di Linate e di Segrate, sotto la cui giurisdizione rientrava la zona ‘corretta’ nel secondo sopralluogo di Visconti. In data 21 marzo il sindaco di Linate concedeva il nullaosta: ed eguale autorizzazione veniva rilasciata da quello di Segrate. Frattanto, precisamente il 28 marzo, veniva richiesta alla Questura di Milano la consueta autorizzazione necessaria tutte le volte che si gira in esterno, specificando, insieme con le date fissate per le scene del parco, di via Giambellino, di via Gattamelata e di via Dalmazio Birago, quelle stabilite – nei giorni 8, 9, 10 e n aprile – per le scene dell’Idroscalo. […] Il 1° aprile, mentre i lavori procedevano celermente, alcune guardie dell’amministrazione provinciale, avendo visto la costruzione e la palificazione, chiesero agli operai che cosa stessero facendo: questi risposero che il tutto serviva per alcune riprese cinematografiche. Le guardie vollero vedere i permessi, e dopo averli attentamente esaminati dissero che non bastavano: occorreva anche l’autorizzazione dell’amministrazione provinciale.
Il 4 aprile fu presentata la domanda, facendo presente che già esistevano i nullaosta della Questura di Milano, dei due comuni interessati e anche dei Carabinieri di Pioltello e di Piantigliate, che si erano aggiunti a quelli già precedentemente ottenuti. Lo stesso giorno l’amministrazione provinciale richiese uno stralcio del copione riguardante la scena numero 106. Ottenuto l’estratto, la giunta provinciale amministrativa, sotto la presidenza dell’avvocato Adrio Casati, mercoledì 6 aprile deliberò di non concedere l’autorizzazione per “riprese filmate nell’area dell’Idroscalo”.

(Gaetano Carancini)

Noi non abbiamo concesso il permesso a Luchino Visconti e alla sua troupe di girare all’Idroscalo alcune scene di Rocco e i suoi fratelli perché riteniamo che non si tratti di una pellicola propriamente di… bella vita. Noi pensiamo che l’Idroscalo stia per diventare il polmone della città: un luogo per gente sana, sportiva, per i giovani. Non desideriamo che se ne offra una diversa interpretazione. Nel negare il permesso non abbiamo commesso alcun atto di arbitrio. La Provincia esercita un suo legittimo diritto di padrone di casa che accoglie gli ospiti che più gradisce. Io ho anche ricevuto un telegramma del ministro dello Spettacolo nel quale mi si informava che i produttori del film di Luchino Visconti sono in possesso dei più regolari visti di censura. Ne prendo atto, ma ciò non mi riguarda. Nell’esercitare questo diritto legittimo di padrone di casa penso di interpretare anche i desideri della cittadinanza. Noi non abbiamo com­piuto ‘un atto di arbitraria supercensura’ ma abbiamo esercitato un nostro diritto.

(Adrio Casati, presidente del Consiglio Provinciale)

 

Esaminando la scaletta presentata dai produttori del film vi abbiamo riscontrato un episodio che, per quanto macabro vi era in esso contenuto, suonava a disdoro di un ambiente di pubblica utilità e di proprietà di un ente pubblico. Specificatamente l’episodio, inserito alla pagina 188 della scaletta del film, era ambientato all’Idroscalo. Posso dirle che alla decisione adottata dalla giunta provinciale nella sua seduta di mercoledì scorso, i produttori hanno aderito di buon grado, apportando le opportune modifiche all’episodio per così dire incriminato con un risultato che, anche da un punto di vista artistico, può dirsi più soddisfacente del precedente. Comunque la giunta provinciale si riunirà nel tardo pomeriggio di oggi per riprendere in esame le nuove richieste dei produttori del film e non penso che vi siano altri motivi per evitare il “sigira” all’Idroscalo.

(Aldo Brusoni, assessore anziano del Consiglio Provinciale)

Evidentemente, il presidente della giunta non dev’essere molto ferrato in questo campo, e sinceramente spero che egli ignori tutto del cinema, perché altrimenti non si saprebbe co­me giudicare un atto come il suo che mette in crisi la produzione di un film (gli interni a Roma sono in programma per martedì 26 e abbiamo attori stranieri già impegnati per pochi giorni e a scadenze fisse). Abbiamo avuto i permessi da tutti: dal ministero, dal sindaco, dalla Curia (ci ha lasciato girare una scena in cima al Duomo), dai padroni di fabbrica. Abbiamo avuto un’ospitalità commovente dall’intera cittadinanza. Chi si aspettava che si opponesse la giunta, la quale dovrebbe esprimere, tra l’altro, la volontà dei cittadini? Entrando nel merito della scena, che cosa ci posso fare, io, se le mondane vengono uccise? Forse l’avvocato Casati ci potrebbe fare qualcosa… L’intervento della giunta assume una particolare gravità, io credo, non soltanto nei riguardi del nostro film, ma di tutto il cinema italiano. Proprio adesso che a Roma molti cineasti hanno il desiderio di allontanarsi dall’atmosfera della capitale, dal romanesco imperante, di cambiar aria (e Milano è tra le mete ricorrenti in parecchi progetti), proprio in questo momento il colpo inferto a noi raffredderà molti entusiasmi. E cominci l’amministrazione provinciale a non lasciare più la zona dell’Idroscalo al buio. Siamo stati noi a mettere un chilometro di pali della luce per illuminare l’Idroscalo. Avrebbero dovuti dirci grazie: invece… Ma noi speriamo molto nell’appoggio della stampa, nella comprensione dei cittadini, nel nostro buon diritto di cineasti amanti della verità. Perché è chiaro che gli esterni milanesi li terminerò a Milano. Non so ancora esattamente dove, ma un posto non sottomesso alla giurisdizione del signor Casati lo troveremo.

(Luchino Visconti)

 

A Milano, an­che ottenendo il permesso dal puntiglioso Casati, non si può tornare per diverse ragioni: innanzitutto perché l’aspetto del­l’Idroscalo, con l’inoltrarsi della bella stagione, è ormai muta­to e ha perduto quello squallore necessario al clima della sce­na; e poi perché, dopo che la produzione ha perduto per causa della giunta provinciale oltre venti milioni, anche se le condi­zioni ambientali fossero ideali, non si può ricondurre a Mila­no l’intera troupe e le attrezzature. In un primo momento si è pensato di girare la scena in un teatro e con una piscina, e per questo sono stati preparati anche alcuni bozzetti. Ma anche questa è apparsa una soluzione di ripiego, e costosissima. Al­lora siamo andati in giro per trovare vicino a Roma una loca­lità adatta: abbiamo visto tutti i laghi laziali, l’idroscalo di Ostia, persino il lago Trasimeno. Infine la nostra scelta si è fer­mata sul lago di Fogliano, nei pressi di Latina. Con alcuni ac­corgimenti lo abbiamo reso simile all’Idroscalo: la luce di cer­te ore del giorno farà il resto. Così speriamo di poter creare l’atmosfera necessaria a quella che, non a torto, è considerata da tutti noi una delle scene più importanti di Rocco. Sicché, dopo le giornate di Civitavecchia (l’incontro tra Rocco milita­re e Nadia appena uscita dal carcere) ci trasferiremo a Latina e finiremo il film secondo i tempi previsti per tutte le sequenze già realizzate o da realizzare. È questa la soluzione migliore, adottata di comune accordo, e senza pressioni o resistenze del­l’una o dell’altra parte, da Visconti e dalla produzione.

(Mario Garbuglia)

Il cognome che la sceneggiatura attribuisce a Rocco e ai suoi fratelli è tipicamente lucano ma corrisponde a quello di un vescovo, di un alto magistrato e di un generale. Il regista spera, tuttavia, di non provocare suscettibilità”. E nel testo del suo articolo – Morandini è un critico serio, ma qualche volta indulge alle sollecitazioni del potin dietro le quinte – si leggeva testualmente: “Sulla parola Pafundi, tipico cognome lucano, c’è qualche perplessità nell’ambiente della produzione. Si è saputo, infatti, che tra i lucani illustri che portano quel cognome ci sono un vescovo, un ex presidente di Cassazione e un generale di corpo d’armata a riposo… Conoscendo la suscettibilità degli italiani si teme che qualcuno abbia a risentirsene e pianti qualche ‘grana’. Uno dei Pafundi finisce, infatti, male: in carcere, accusato di avere ucciso per gelosia la sua amante. Uno su cinque, la percentuale è bassa, ma non si sa mai.

(Morando Morandini, I Pafundi preoccupano Visconti, “Tempo settimanale”, 2 aprile 1960)

Fatto è che, quando il film era stato ormai girato tutto, i giornali di sabato 11 giugno e di lunedì 12 pubblicarono la notizia che il dottor Rocco Pafundi, figlio dell’ex procuratore della Corte di Cassazione, aveva presentato contro Goffredo Lombardo, il regista Luchino Visconti, i soggettisti Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa un ricorso innanzi al pretore capo di Roma, chiamando in giudizio tutti i sunnominati per aver dato il nome di Rocco Pafundi al protagonista del film, e chiedendo di “togliere entro breve termine il nome civile e familiare del ricorrente da ogni scena e dalla colonna sonora del film e, nel caso di inadempimento, il sequestro del film in tutte le copie esistenti”.

(Gaetano Carancini)

Ora, in Lucania, i Pafundi si contano a centinaia. Ho scelto questo cognome perché Suso Cecchi D’Amico, di ritorno dalla Germania dove aveva curato la sceneggiatura dei Magliari di Franco Rosi, mi aveva parlato con entusiasmo di un operaio, lucano, incontrato per caso, che si chiamava Vincenzo Pafundi. Era un ragazzo straordinariamente in gamba. Decisi di prendere in prestito questo cognome e cambiai il nome di battesimo con Rocco, in memoria di Rocco Scotellaro per il quale io nutro una grandissima ammirazione. Ecco dunque la seconda verità”.

(Luchino Visconti)

Per fare cosa gradita a S.E. Pafundi ho aderito alla richiesta di mutare il cognome “Pafundi” in “Parondi”, fatto reso possibile dalle più moderne tecniche cinematografiche, che consentono tali variazioni senza rovinare la qualità della fotografia del film. Tale decisione è stata presa di perfetto accordo con Luchino Visconti. A questa soluzione si è arrivati dopo che la Titanus, innanzi al pretore, a mezzo dei suoi legali, aveva fatto la seguente dichiarazione: “L’utilizzazione del cognome Pafundi sarebbe stata legittima in forza dei princìpi giuridici regolanti la materia. Per altro la scelta definitiva del cognome dei protagonisti del film in oggetto è caduta sul cognome di Parondi. La Titanus osserva che con ciò manca la materia del contendere”. I Pafundi hanno preso atto di tale dichiarazione e hanno rinunciato al ricorso.

(Goffredo Lombardo)

Pare che alla proiezione a Venezia, al festival, ci fossero tre o quattro ministri democristiani venuti giù apposta, tre o quattro deputati, comunque, i quali subito dopo la proiezione hanno detto: “È uno schifo, una vergogna, un film che non può essere assolutamente premiato”. Dopo di che hanno influenzato la giuria. A parte il russo che non volle essere coinvolto in quel giudizio, a parte Tofanelli che si è comportato bene, a parte l’americano e il polacco, gli altri erano contrarissimi: quel glottologo, e l’altro, l’altro italiano che non nomino. I francesi han portato l’acqua al loro mulino, quelli ciao, pazienza, son francesi; dicevano: “Pigliamo un premio per la Francia”. Così sono andate le cose. Le parti che li hanno indignati di più sono state, manco a dirlo, la scena della violenza alla Ghisolfa e l’uccisione di Nadia. Va bene. L’uccisione: più che ammazzare una ragazza… non è che sia una cosa all’acqua di rosa, certo che può dare un po’ di noia allo stomaco. La scena della violenza è la scena della violenza; pare che le mutandine li abbiano sconvolti. Le mutandine buttate in faccia a Rocco. Uno, durante la proiezione, ha gridato anche “Schifoso!”, “Vergognoso!”.

(Luchino Visconti)

Revisionato il film […] si esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico a condizione che venga posto il divieto ai minori degli anni 16 per il soggetto del film, per il linguaggio e per alcune scene non adatte alla sensibilità dei minori. La Commissione ha, poi, espresso il parere che siano attenuate due scene e precisamente:
a – La scena, che si svolge di notte, all’aria aperta, in cui Simone possiede Nadia alla presenza del fratello Rocco e di altri giovani;
b – la scena nella quale Simone uccide a coltellate la ragazza infliggendo ripetuti colpi sul suo corpo.
Nella prima scena dovrebbero essere tolti i fotogrammi che inquadrano Simone e Nadia stesi in terra, l’uno sull’altra, bocca a bocca, stretti nell’abbraccio sessuale.
La Commissione è poi in dubbio se eliminare, in tale scena, anche il dettaglio in cui Simone lancia sul volto di Rocco le mutandine tolte alla ragazza. La Commissione è però più propensa a lasciare tale dettaglio dato il carattere di tragica esasperata irruenza di tutta la scena.
Nella seconda scena dovrebbero essere eliminati alcuni dei fotogrammi in cui si vede Simone affondare la lama nel corpo della ragazza. La ripetizione del gesto omicida appare veramente eccessiva e la scena assume, per la sua lunghezza, un carattere truce e di crudeltà.

(Visto n. 32871, 2 novembre 1960)

Presentato a Venezia tra molteplici dissensi e contestazioni, furono fatte pressioni sulla giuria perché non gli fosse assegnato il Leone d’Oro, che infatti andò a Le passage du Rhin di André Cayatte. Proiettato a Milano in anteprima il 14 ottobre 1960, il giorno successivo il Procuratore capo della Repubblica di Milano, Carmelo Spagnuolo convocò il produttore Goffredo Lombardo richiedendo quattro tagli per totali 15’. Avendo il film già ottenuto il visto di censura ne nacque un’aspra polemica. Lombardo ottenne che le scene non fossero tagliate, ma oscurate durante la proiezione, lasciando al buon cuore e all’intelligenza del proiezionista l’applicazione della prescrizione. Il sistema era così assurdo che non poteva funzionare. La polemica proseguì per mesi, fino al febbraio del 1961, quando il nuovo spettacolo teatrale di Visconti, L’Arialda di Giovanni Testori, andò in scena a Milano e venne sequestrato per oscenità dalla stessa Procura, che considerò l’opera una sorta di prosecuzione diRocco. Osteggiato dai politici e bersagliato dalla censura, è il solo film di Visconti che incassò nelle sale di seconda e terza visione più che in quelle di prima, in provincia più che nelle grandi città. La vicenda giudiziaria continuò fino al 1966 quando Visconti fu assolto in modo definitivo. Nel 1969 la censura ribadì il divieto ai minori di 18 anni e nel 1979 fu allestita una nuova edizione per il passaggio in TV con altri tagli.

(Gian Luca Farinelli)