Approfittiamo dell’uscita di un nuovo Ben-Hur nelle sale per tornare con la memoria alla versione muta del ’25. Ci conduce nel lungo e appassionante viaggio il nostro esperto di Hollywood, Federico Magni.
Nell’estate del 1924, tra giugno e luglio, un contingente di artigiani, tecnici, assistenti e progettisti partì dal porto di New York con destinazione Italia, per quella che può essere definita come una colossale spedizione di soccorso. I viaggi erano una diretta conseguenza della formazione di una nuova entità produttiva, sorta all’inizio di aprile di quello stesso 1924, a seguito della fusione tra la Metro Pictures guidata da Marcus Loew, la Goldwyn Pictures e la Louis B. Mayer Pictures. Samuel Goldwyn, intuendo che nella nuova impresa non avrebbe ricoperto la carica principale, si sfilò quasi subito per dedicarsi alla Samuel Goldwyn Productions ma, accortamente, fece mantenere il nome nel logo della società, anche se sarebbe passato quasi un anno prima di arrivare alla denominazione definitiva. Infatti il nome che compariva sui passaporti dei viaggiatori era quello della Goldwyn-Metro-Mayer-Corp.
La Goldwyn Productions portava una struttura ed un’organizzazione di prim’ordine (eredità degli studi Ince) ma senza titoli di grosso richiamo, elemento invece presente nei listini della Metro. I maggiori successi recavano la firma di Rex Ingram ed erano I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921) e Il prigioniero di Zenda (The Prisoner of Zenda, 1922). La Goldwyn aveva acquistato i diritti di uno dei maggiori spettacoli dell’epoca, la riduzione teatrale di Ben-Hur, ed aveva investito tutte le proprie forze nella trasposizione cinematografica. Come regista era stato scelto Charles Brabin, i ruoli principali erano andati a George Walsh (Ben-Hur) – fratello del regista Raoul – ed a Francis X. Bushman (Messala). Inoltre si era deciso di girare quanto più possibile in Italia. Tra settembre ed ottobre 1923 regista, interpreti e tecnici erano partiti alla volta di Roma ma, sei mesi più tardi, la situazione era giunta ad una drammatica stagnazione. Le difficoltà logistiche, unite alla situazione politica che si ripercuoteva in schermaglie tra opposte fazioni di lavoratori, avevano pressoché frenato le operazioni e i costi si stavano accumulando senza risultati soddisfacenti. Le trenta navi che la produzione aveva ordinato pressi i cantieri navali di Anzio si erano ridotte a dodici, delle quali solo due veramente complete. Tuttavia le autorità non le avevano reputate idonee a prendere il mare, e la battaglia era stata girata con i vascelli ancorati ai moli ed una conseguente impressione di staticità.
Quando la nuova dirigenza (Marcus Loew, Louis B. Mayer, Harry Rapf e Irving Thalberg) visionò il girato giunto dall’Italia, il giudizio fu fortemente negativo. Nonostante ciò si decise di andare avanti, ma apportando drastici cambiamenti. La lavorazione si stava trasformando in una odissea della quale non si vedeva la fine, nonostante le dichiarazioni entusiastiche alla stampa. Tra gli addetti ai lavori circolava la frase ‘Ben-Hur non è un film, è un enigma.’ (Photoplay, Agosto 1924) All’inizio di giugno fu comunicato che Fred Niblo avrebbe preso il posto di Brabin. Assieme a Niblo giunse in Italia Ramon Novarro, destinato a vestire i panni del protagonista. George Walsh fu rimandato in America senza aver girato un metro di pellicola, mentre Francis X. Bushman fu riconfermato nella parte di Messala. L’investimento era stato considerato troppo importante per essere lasciato cadere: le riprese sarebbero continuate in Italia fino al perdurare delle condizioni ambientali ottimali ed i rinforzi continuarono a partire da New York. Una ulteriore conferma dell’importanza data al progetto si ebbe a metà di agosto quando, dopo una visita di Marcus Loew al set romano, prese il largo anche una squadra di professionisti del Technicolor, che comprendeva il direttore tecnico J. Arthur Ball e i cameraman W. Howard Greene ed E. Roy Musgrave. Assieme a loro partì il direttore della fotografia Renè Guissart, già inviato in Europa per altre produzioni, che sarebbe diventato capo cameraman per la parte girata in Italia.
La spedizione che maggiormente interessa ebbe luogo il 23 luglio, quando presero posto sul transatlantico Reliance il cameraman Ben Reynolds (dopo la realizzazione di Greed era considerato un esperto di situazioni problematiche), gli scenografi Harry Oliver e Harold Grieve, il responsabile di laboratorio William Hinckley (un veterano della prima spedizione) e i tecnici Walter Pallman e Kenneth Gordon MacLean. Questi ultimi erano stati convocati come specialisti di miniature, dopo aver lavorato in una delle maggiori produzioni fantasy dell’epoca, Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad), diretto da Raoul Walsh ed interpretato da Douglas Fairbanks. Il loro ingaggio in Ben-Hur dimostra quanto questo genere di trucchi si fosse ormai affermato in ogni tipo di produzione.
L’impiego delle miniature nel cinema si fa risalire generalmente al 1898, quando Edward H. Amet (The Sinking of Cervera’s Fleet) e J. Stuart Blackton (The Battle of Manila Bay) ricrearono fatti storici con modellini di navi e sagome di cartone. A inizio secolo le opere fantastiche di George Méliès ne fecero ampio uso, ma l’avvio di una applicazione sistematica è attribuito al lavoro di Joseph L. Menchen, un inventore e produttore che si interessò al cinema intorno al 1912. Le produzioni di prestigio tendevano ad evitare le miniature, avvertite come uno stratagemma poco leale nei confronti del pubblico e considerate di poca efficacia. D. W. Griffith vi fece ricorso in Nascita di una nazione (Birth of a Nation, 1915) per ragioni di costi, seguendo il consiglio del suo capo attrezzista Arthur Smith. Lo stesso Smith, assieme a William Davidson, le propose a Rex Ingram per I quattro cavalieri dell’Apocalisse, e il regista abbracciò entusiasticamente l’idea, tanto da utilizzarle nelle opere successive. Nella maggiore produzione Universal del 1923, Il gobbo di Notre Dame (The Hunchback of Notre Dame) la ricostruzione della basilica francese venne completata grazie ad una miniatura sospesa progettata dallo stesso scenografo del film, Elmer E. Sheeley. Cecil B. DeMille e Douglas Fairbanks si affidarono sempre più a questo genere di soluzioni negli anni Venti, mentre Willis O’Brien ne fece un elemento fondamentale per le sue creazioni.
Il discorso cambia quando si prendono in considerazione le produzioni seriali. L’industria del divertimento (la cosiddetta fun factory) di Mack Sennett necessitava settimanalmente di ogni sorta di trucchi fotografici per le frenetiche gesta dei comici della Keystone. In un documento ufficiale del 1916 George Chapman, responsabile tecnico degli studi Keystone, si definiva ‘direttore delle miniature’. Nelle produzioni Sennett si formarono alcuni dei più esperti tra i cameraman di effetti fotografici, quali Hans Koenekamp, Fred Jackman, Vernon Walker, Billy Williams, Philip Whitman e Edwin DuPar. A capo del reparto fotografico della Keystone dal 1914 al 1918 fu Kenneth Gordon MacLean. Californiano di San Francisco, classe 1889, fu elettricista in Marina poi cameraman di cinegiornali e filmati pubblicitari prima di entrare alla compagnia di Sennett nel 1912. Quando passò alla Fox sette anni dopo, portava con se’ la reputazione di tecnico di prim’ordine, anche ideatore di apparati per macchine da presa. Ne Il ladro di Bagdad MacLean si cimentò con le miniature progettate da un altro californiano, Walter Pallman. Nato Walfred Pallmen a Vallejo nel 1892 da immigrati svedesi, studiò da modellista prima di intraprendere la strada dell’edilizia. Il suo primo impiego nel cinema fu presso la Universal, mentre alla Triangle ebbe modo di sviluppare quel talento per le creazioni in scala ridotta che ne fece un collaboratore di fiducia per Douglas Fairbanks.
Dall’arrivo in Italia di Pallman e MacLean passò poco più di un mese per avere una riproduzione in miniatura del Circo Massimo, da cui si evidenziava che una ricostruzione a grandezza reale sarebbe stata lunga almeno ottocento metri. La soluzione escogitata per risparmiare sui costi e sul tempo fu di replicare la parte superiore dell’arena con una miniatura sospesa: posta in prospettiva su una porzione di set costruita a dimensione reale, la miniatura avrebbe contribuito a dare l’impressione di un unico ‘edificio’ completo. L’efficacia del trucco è visibile in due foto pubblicate nel volume di Kevin Brownlow The Parade’s Gone By (1968). Pallman eresse anche una Gerusalemme in miniatura che fece da sfondo per la scena in cui Ben-Hur (Novarro) e sua sorella Tirza (Kathleen Key) osservano la caduta della tegola sul governatore romano. Questa parte rimase nella versione definitiva della pellicola, a differenza di quanto filmato nel Circo Massimo. Con il crescere dei costi e l’accorciarsi delle giornate (si andava verso l’inverno) venne abbandonato il piano di girare la corsa delle quadrighe in Italia. Le miniature entrarono anche nella battaglia sul mare: per conferire dinamicità al combattimento venne fabbricata una flotta di modellini che MacLean riprese in maniera magistrale. La parte più drammatica dello scontro (l’attacco e l’incendio alla nave ammiraglia romana) fu rigirata nelle acque davanti a Livorno, con nuove e più adeguate imbarcazioni costruite dalla ditta dei fratelli Neri, ma si concluse con decine di comparse italiane in pericolo di affogamento (molte avevano mentito sulle reali capacità di nuotare). Pur non avendo conseguenze drammatiche, l’incidente affrettò lo smantellamento delle operazioni ed il ritorno in patria del contingente americano.
Il Circo Massimo fu ricostruito in California, a Westview Park, nei pressi di Culver City, mantenendo la concezione di Pallman. La parte superiore era una serie di miniature sospese, con minuscole figure in legno a formare la folla sugli spalti: inserite su stecche manovrabili dall’esterno, davano l’idea del pubblico in movimento. A supervisionare questi effetti fu Robert T. Layton, associato del responsabile in toto degli effetti speciali alla Metro-Goldwyn-Mayer, James Basevi. La fabbricazione delle miniature fu assegnata al capo carpentiere Andrew MacDonald, la cui famiglia operò a lungo nel campo delle costruzioni e dei trucchi cinematografici. Una volta completate le parti a grandezza naturale e quelle in scala ridotta, l’arena fu teatro di una delle più famose sequenze dell’epoca del muto: lo specialista B. Reeves Eason diresse, tra giugno e agosto del 1925, la corsa dei carri, che impegnò quasi centocinquanta cavalli e quarantadue macchine da presa. Percy Hilburn e George Meehan comandarono la squadra dei cameraman, che annoverava H. Lyman Broening, Max DuPont, Frank B. Good, Jay Rescher e E. Burton Steene, quest’ultimo responsabile delle ragguardevoli riprese dall’alto.
L’utilizzo di effetti visivi in Ben-Hur non rimase limitato alle miniature: già prima che la M-G-M fosse formata, Paul Eagler, esperto nella tecnica del trasparente, era stato inviato a filmare scenari ed esterni in Italia. Le inquadrature sarebbero poi servite come sfondi davanti ai quali riprendere gli attori in studio. Le vedute e i paesaggi della Giudea e dell’Egitto giunsero sullo schermo grazie al lavoro del regista e pittore Ferdinand Pinney Earle e dell’operatore Gordon B. Pollock. La tecnica usata era il matte painting (porzioni di scena riprodotte a grandezza variabile da inserire prospetticamente nelle inquadrature con gli ambienti reali e gli attori), che i produttori tendevano a tener nascosta al grande pubblico. Earle aveva bisogno di fondi e di visibilità per completare e distribuire la sua opera più ambiziosa The Rubaiyat of Omar Khayyam (distribuito nel 1925 con il titolo A Lover’s Oath) e concluse con la Metro di comparire sulla stampa specializzata come realizzatore di scene da usare a scopo pubblicitario. Oltre alla valle dei lebbrosi, all’accampamento dello sceicco Ilderim ed alla sequenza della Natività (di cui curò anche la regia), Earle contribuì alla maestosità del Tempio di Gerusalemme. Il crollo del tempio sancì l’efficacia del sistema di sovraimpressione ottica ideato da Frank D. Williams: la distruzione era il risultato dell’accorpamento di due parti distinte (la caduta delle mura e le comparse in fuga) filmate da Ray Binger ed assemblate otticamente da Williams con la collaborazione di William Ulm.
Kevin Bronlow intitolò il capitolo su Ben-Hur ‘The Heroic Fiasco’, in quanto il film, pur con grandi incassi, non riuscì a coprire i costi di realizzazione durante il primo anno di uscita, ma rimase nella considerazione degli spettatori come una impresa senza eguali.
Il colpo d’occhio conseguente all’entrata nell’arena, la grandiosità e l’imponenza della stessa sono l’introduzione ideale per la sequenza più attesa e celebrata del film e della successiva versione a colori del 1959, la corsa delle quadrighe. Ridley Scott ha usato la stessa tecnica di presentazione per l’entrata dei combattenti nel film epico di inizio millennio Il gladiatore (Gladiator). Anche la versione con Charlton Heston venne girata in parte in Italia, a Cinecittà, e le distese della Palestina visibili oltre l’arena furono create dell’artista di matte painting Matthew Yuricich. Il responsabile di tutti gli effetti visivi era Arnold Gillespie, che aveva preso parte al Ben-Hur precedente in qualità di assistente scenografo (viaggio in Italia compreso). Molti altri partecipanti alla prima versione non arrivarono ad assistere al trionfo della seconda. Terminato il lavoro in Italia, Walter Pallman passò in Francia dove lavorò per Rex Ingram, che si era stabilito a Nizza dopo essere stato estromesso dalla corsa per dirigere Ben-Hur. Dopo aver completato le miniature per Mare Nostrum (1926), fece ritorno negli Stati Uniti e affiancò ancora Harry Oliver nel portare sullo schermo la Parigi degli Anni Dieci in Settimo Cielo (Seventh Heaven, 1927). Nominato capo del reparto Attrezzistica e Miniature della Fox, mantenne la carica anche dopo la trasformazione della compagnia in 20th Century-Fox, ma trovò il tempo di collaborare nuovamente con Douglas Fairbanks per La maschera di ferro (The Iron Mask, 1929) e Mr. Robinson Crusoe (1932). Durante quest’ultimo film Fairbanks proclamò due giorni di pausa per la cerimonia di matrimonio tra Pallman e Simone Grand, tahitiana di nobile discendenza (i due si erano precedentemente sposati a Los Angeles nel 1927). Walter Pallman si spense a Los Angeles nel gennaio del 1952.
Le cose andarono diversamente per Kenneth MacLean. Al suo ritorno negli Stati Uniti (dicembre 1924) fu ingaggiato per le sequenze di caccia de Il mostro del mare (The Sea Beast, 1926) quindi tornò a lavorare per Mack Sennett, come capo cameraman con mansioni aggiunte di regista, da maggio del 1926. Ma il panorama stava cambiando a causa dell’avvento del suono e il divertimento non era più di casa nel regno di Sennett, i cui ritmi e tempi male si adeguavano alle necessità tecniche della nuova invenzione. L’avvio del cinema sonoro confinò la lavorazione all’interno dei teatri di posa, con le cineprese il più delle volte fisse o segregate all’interno di armadi di legno con una parete di vetro ironicamente battezzati ‘ice boxes’ (scatole del ghiaccio) in quanto privi di ventilazione. Le riprese ed le trasferte in esterni andarono a ridursi drasticamente, così come si perse la componente pionieristica ed avventurosa che tanta attrattiva aveva esercitato su interpreti e cineasti.
A questo si aggiunse la crisi economica del 1929, che incise pesantemente su destini e carriere. Gli operatori itineranti – che viaggiavano filmando luoghi esotici e scenari suggestivi – dovettero adeguarsi alle nuove logiche produttive. Felix Schoedsack, collega di MacLean alla Keystone nonché uno degli originali ‘avventurieri dell’Isola del Teschio’ (i realizzatori del primo King Kong, 1933) lasciò il cinema dopo aver accompagnato il fratello Ernest in India per filmare gli esterni de I lancieri del Bengala (Lives of a Bengal Lancer, 1935). J. O. Taylor (anch’egli tra gli artefici di King Kong) e Jack Smith si dedicarono alle riprese con il trasparente, rispettivamente alla 20th Century-Fox ed alla M-G-M. Kenneth MacLean abbandonò la carriera cinematografica alla fine degli anni Venti per la sua altra grande passione: il mare. Si stabilì nella zona portuale di Los Angeles (San Pedro e Wilmington) e fece esperienza da secondo ufficiale su imbarcazioni mercantili, a parte una breve parentesi come proiezionista in un cinema di San Pedro all’inizio degli anni Quaranta.
A recare confusione c’è la presenza di un cameraman quasi omonimo (Gordon MacLean, 1894-1930) operante alla M-G-M nella seconda metà degli anni Venti. Nel 1942 Kenneth MacLean conseguì il brevetto da primo ufficiale e operò sulle rotte mercantili della California del Sud. Il 12 Novembre 1946 la nave di cui era comandante, il cargo Pacifica, prese il largo dalle coste del Guatemala e non fu più avvistata. All’inizio di Dicembre un pescereccio rinvenne e rimorchiò nel porto di Los Angeles una scialuppa con i resti irriconoscibili di due corpi ed una serie di documenti, alcuni dei quali intestati al capitano della Pacifica, ‘Kenneth G. MacLean, di San Pedro’. Nella ultima lettera, spedita alla moglie il giorno prima di salpare dal Guatemala, il capitano MacLean esprimeva la sua preoccupazione, sia per il comportamento di alcuni membri dell’equipaggio che per la stabilità della nave, gravata da un ingente carico di frutta e legname. Secondo le sue parole, in caso di mare grosso, la nave avrebbe ‘sbandato come un marinaio ubriaco in un vicolo dei bassifondi’.
Nel primo anno di uscita Ben-Hur chiuse con una perdita di quasi settecentomila dollari, dovuta agli costi di produzione, ma recuperò ed andò in positivo con le successive riedizioni (nel 1931 uscì con un commento musicale sincronizzato). Il pubblico continuò ad entusiasmarsi ed a apprezzare l’imponenza della messa in scena. La pellicola divenne negli anni una delle più remunerative dello studio, fino a quando non venne oscurata dalla versione del 1959, forte di schermo panoramico, Technicolor e suono stereofonico. Ma il film di Fred Niblo era stato girato senza un modello di riferimento, un precedente a cui rapportarsi, e dunque appare ancora più ammirevole ciò che riuscirono a conseguire i realizzatori di allora: come il protagonista, uscirono dall’arena da vincitori.
Federico Magni