Tarantino mescola le carte di realtà e finzione - affiancando Rick e Cliff, due personaggi immaginari anche se ispirati a persone reali, a Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski - e crea una dimensione parallela, dove il vizio di forma – per dirla con un titolo di Thomas Pynchon – annulla una realtà danneggiata, corrotta e la rende pronta ad essere riscritta. E a pensarci bene, a dieci anni dall’uscita del libro di Pynchon, Tarantino ritorna, negli stessi luoghi e negli stessi anni di Vizio di forma, in quella dorata west coast che brilla alla luce aranciata del crepuscolo (magnificamente fotografata dal pluripremiato Robert Richardson), all’apice della propria bellezza ma anche alle soglie di una crudele ed inevitabile perdita dell’innocenza. Ritornano entrambi lì, per una sorta di omaggio e risarcimento a ciò che non è stato ma che poteva o doveva essere. E questa volta al posto dell’investigatore Larry Doc Sportello e dell’affascinante Shasta troviamo i due attori Rick e Cliff (che compongono le due facce di una stessa medaglia) e la bellissima starlet Sharon. Sullo sfondo di entrambi gli scenari si staglia sinistro il profilo della Manson’s family.
Rick è un attore di mezza età, semi alcolizzato, che litiga con se stesso e soprattutto con la paura di dimenticare le battute, di scomparire dalle scene, di perdere la cittadinanza hollywoodiana. Un perfetto Leonardo di Caprio, che non ci fa ricredere della sua solita ed evidente bravura, vestendo i panni di un attore al tramonto che - come una Norma Desmond in versione cowboy - ripone in giovani occhi il bisogno di approvazione. Ma in questo caso gli occhi - quelli di una petulante e perfettina attrice di 8 anni – sono talmente giovani che fanno velocemente virare il melodramma in comicità.
Accanto a Rick, c’è il suo doppio, il suo alter ego Cliff, che di professione fa il suo stuntman, il suo homesitter, il suo autista, il suo tuttofare, nonché il suo migliore amico. Una specie di doppio, dal passato ambiguo, che si lascia vivere all’ombra dell’amico quasi famoso, passando dalla giornata a far lavoretti nella villa hollywoodiana alla notte da passare nella sua scalcagnata roulotte di periferia, che divide con il fedele cane Brandy. Un personaggio meraviglioso, il primo ideato da Tarantino in fase di scrittura, poi affidato ad un Brad Pitt assolutamente in parte, sornione e taciturno, protettivo e fedele, coraggioso e leale. E proprio Cliff ci regala alcune delle scene più belle del film: il combattimento con Bruce Lee, l’arrivo allo Spahn Movie Ranch (che Tarantino gira con un crescendo di suspense magistrale) e l’allucinata e divertentissima resa dei conti finale (con Cliff che sotto acido, in un doppio cortocircuito finzione e realtà, chiede ad alcuni seguaci di Manson: “ma voi siete veri?”).
E di fianco a Rick e Cliff c’è Sharon Tate, c’è l’innocenza perduta, c’è l’omaggio affettuoso e malinconico che Tarantino tributa all’attrice uccisa da alcuni membri della Manson’s Family la sera dell’8 agosto 1969 nella sua casa di Beverly Hills. Il regista ci presenta Sharon all’apice della sua bellezza e del suo fascino, moglie innamorata del già noto Polanski, mentre balla ad una festa in minigonna, attirando l’attenzione di Steve McQueen, o mentre se ne va felice in libreria a ritirare una copia di Tess dei D'Urbervilles di Thomas Hardy (da cui dieci anni più tardi Polanski trarrà il film Tess). Ma la scena che noi spettatori non potremo dimenticare facilmente è quella in cui entra in un cinema dove stanno proiettando l’ultimo film a cui lei ha partecipato come attrice: The Wrecking Crew. La camera riprende Sharon seduta in sala, coi piedi appoggiati sul sedile davanti, mentre guarda se stessa recitare in attesa delle reazioni del pubblico. Ecco, in un nuovo gioco di specchi e di meta-narrazione - fra finzione e realtà, fra attore e spettatore, fra cinema che guarda il cinema - Tarantino ci regala quel momento di trepidazione mista a felicità ed incredulità in cui Sharon percepisce la potenza e la bellezza totalizzante del cinema.
Ma poi Tarantino va oltre all’omaggio al cinema di quegli anni (che viene ossessivamente ripetuto durante tutto il film in mille occasioni, con un continuo di citazioni dirette di film, serie tv, attori, canzoni, poster, registi fino a quelle indirette dei suoi idoli, quasi fosse sacrilegio citarli direttamente) e riannoda queste tre vite nella parte finale, ribaltando di netto la prospettiva tra realtà e finzione filmica. Nel buio di una macchina parcheggiata davanti alle case di Rick e Sharon, una ragazza della Manson’s family propone agli amici uno scambio di ruoli: quegli attori, che dentro la tv della loro infanzia e adolescenza interpretavano cowboy o poliziotti assassini, ora da carnefici diventeranno vittime.
Se per segnare e ferire la Storia - sembra suggerire Tarantino - basta credere ad un’idiozia, allora per raccontare una storia più piccola, dentro una pellicola, basteranno una sigaretta all’acido conservata per un’occasione speciale, una passeggiata col cane finita al momento giusto e un’entrata in scena dei cattivi al momento sbagliato. Ed ecco: la finzione si vendica della realtà, regalandoci un pirotecnico finale alla Tarantino, con tanto di lanciafiamme per tutti quelli che ne sentivano la nostalgia da Bastardi senza gloria.
Insomma quello che Tarantino tributa al cinema con questo film non è solo un omaggio, non è solo amore. È lo svelamento di una grande verità cinefila: che il cinema in qualche modo ci salva.