Pur non essendo la protagonista di Teresa Venerdì di Vittorio De Sica, Magnani emana carisma nel ruolo di Loletta, vistosa cantante di rivista e amante dell’indebitato e sfaticato pediatra Pietro Vignali, interpretato dallo stesso regista. Il personaggio di sciantosa interpretato dall’attrice, così diverso dalle popolane interpretate in seguito, è tuttavia fondamentale non solo per lo sviluppo narrativo del film ma anche, citando le parole di Emiliano Morreale su Teresa Venerdì, per “forzare i limiti del genere come una specie di via d’uscita dal cinema di regime”.
Siamo infatti in pieno fascismo e l’Italia è già in guerra. Che cosa ci dice dell’Italia di quegli anni un’apparentemente innocua ed edificante commedia degli equivoci in cui un pediatra di famiglia benestante ma perennemente inseguito dai creditori si innamora di una giovane orfana, la Teresa Venerdì del titolo (Adriana Benetti), preferendola sia a Loletta che alla fidanzata pseudo-poetessa di buona famiglia (Irasema Dilian)?
Fin dalla sua prima inquadratura, Anna Magnani forza immediatamente le aspettative del pubblico. Sono appena terminati i titoli di testa, su cui scorrono le immagini di bambine che escono ordinatamente dall’orfanotrofio dove Vignali si troverà a dover lavorare nel corso del film. La macchina da presa inquadra la targa fuori dalla casa del dottore che lo definisce “Specialista in malattie dei bambini”. Qui arriva però il primo rovesciamento delle nostre attese: vedendo il pediatra in piedi che rassicura una paziente, non inquadrata, ci immaginiamo che stia parlando con una bambina.
Invece, la macchina da presa svela il volto di Anna Magnani a cui il dottore (e, capiamo nel corso della scena, amante) sta ritoccando le sopracciglia. Tutto il personaggio di Loletta è basato sul meccanismo del rovesciamento: attrice da rivista che non vuole essere popolana, con abiti che vorrebbe eleganti ma che sono solo vistosi ed eccessivi, paradossalmente incapace di recitare con la stessa passione che ci sa invece mettere Teresa Venerdì.
La prima scena con il volto di Magnani è quindi l’emblema di un film in cui tutto sembra andare al contrario: una direzione visivamente espressa dall’entrata del dottore nell’orfanotrofio dove il padre, stufo di dargli soldi, gli ha trovato lavoro. Mentre Vignali sale le scale per recarsi nell’ufficio della direttrice, è investito dall’onda festante delle ragazze dopo il suono della campanella che vanno in direzione opposta alla sua. Anche la medicina sembra andare al contrario nell’orfanotrofio: per qualsiasi malanno si utilizza l’olio di ricino, tutto va sempre “molto bene” e il cibo è sempre “molto buono” anche quando, come il baccalà, proprio non va giù.
Le relazioni tra le ragazze sono anche caratterizzate dall’inganno e dalla delazione e, per questo, l’infatuazione di Teresa per Vignali viene denunciata alla direttrice prima che l’orfana e il dottore possano parlarsi francamente. Difficile non cogliere in queste situazioni all’interno dell’istituto un microcosmo dell’Italia del Ventennio. Pur nella loro diversità sociale, l’orfanotrofio e le case borghesi di Vignali e della sua fidanzata riflettono l’ingiunzione che tutto debba sempre andare bene, almeno in superficie.
A questa dinamica non si conformano Loletta e Teresa. “Sono troppo fine io”, esclama ad un certo punto la prima, ma tutto di lei ci dice del suo compiacimento nel contrario. La stessa Teresa è ben lontana dall’essere semplicemente un simbolo di purezza se riesce a farsi pagare dal padre della fidanzata di Vignali la somma esatta per pagare tutti i debiti del dottore in cambio della rinuncia al suo amore per finire, comunque, nelle sue braccia.
In questo modo, anche il prescritto lieto fine sa d’inganno e ci lascia con il dubbio se il maschio Vignali sarà in grado di lavorare e mantenere una famiglia.