Fin dal piano sequenza iniziale, Terra incognita ci invita a partecipare attivamente alla costruzione del senso del film, a decriptare il messaggio, come viene anche detto nel corso del documentario citando Humboldt, uno dei punti di riferimento della narrazione. E proprio come il disorientamento veicolato dal titolo, le prime immagini ci confondono: un documentario che inizia con un omaggio cinefilo, una sequenza iniziale che potrebbe venire da Strategia del ragno o Novecento, con un uomo che si sveglia in un paesaggio padano e sale un argine che, tuttavia, non nasconde un fiume ma, come svela il complesso movimento di macchina, dei tralicci della luce.
L’elettricità – la sua produzione, l’uso che ne facciamo o decidiamo di non farne nella nostra vita, il suo ruolo nel nostro mondo caratterizzato dal consumo – è infatti il punto di partenza di Terra incognita che contrappone due realtà fisicamente contigue ma spiritualmente ed economicamente antitetiche. Da una parte, una piccola comunità rurale che vive sulle Alpi al confine con la Francia senza energia elettrica e con una filosofia di vita basata sulla decrescita; dall’altra, appena varcato il confine, la costruzione di una imponente centrale nucleare dove sperimentare la produzione di energia attraverso il processo di fusione.
Enrico Masi e il co-sceneggiatore Stefano Migliore tornano all’interesse per temi già esplorati nei precedenti The Golden Temple (2012) e Lepanto (2016) quali la costruzione di comunità, l’impatto delle scelte politiche ed economiche sulle nostre vite, il trasgredire le frontiere, non solo degli Stati nazionali, ma anche le frontiere più interne e più intime. Come deve imparare a fare Leben, coinvolto nella costruzione della centrale francese, che, nato in una comunità Amish dell’Ohio, decide a 17 di entrare nell’esercito, contravvenendo al dettame religioso della sua famiglia e ponendosi così al di fuori di essa.
Diventato ispettore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica deve oltrepassare un altro confine, quello della differenza culturale, quando è costretto ad ammettere che iraniani e americani adottano la stessa strategia di “mentire per il bene della nazione”. Uno scienziato Leben che, tuttavia, è affascinato da storie bibliche di un Paradiso e di un’armonia con la natura perduti e dagli sforzi per ritrovarli, tra cui si potrebbe includere anche l’esperimento ruralista della comunità alpina.
Terra incognita compie una complessa ricerca iconografica, fatta di accostamenti di paesaggi naturali e industriali, apparentemente opposti, che tuttavia contengono, al loro interno, continui rimandi all’altra realtà, non solo nel carattere monumentale delle Alpi e della costruzione della centrale, ma anche in dettagli apparentemente minori, come le immagini di porte, antri e tunnel che contraddistinguono sia la natura che l’impianto nucleare.
Proprio in uno di questi antri naturali due scienziati bardati con uno scafandro per le radiazioni trovano una riserva di uranio, elemento che ci riporta alla centrale. Entrambe le narrazioni sono, inoltre, contraddistinte dall’inserimento di filmati di repertorio, interviste a tecnici di centrali, filmati di famiglia, telegiornali, che ci offrono una prospettiva storica sui due soggetti del film, quasi costruendone un passato spettrale.
Questa stratificazione di significati e di forme richiama, ancora una volta, il pensiero di Humboldt, citato esplicitamente nel film, rispetto alla molteplicità delle manifestazioni di luce terrestre che porta a “supporre tali luci essere latenti e combinate con vapori al fine di interpretare le immagini prodotte a distanza. E tra queste la realtà si è finora manifestata come un vero fantasma dell’immaginazione”.