Le prime immagini di The Brutalist sono in salita, verso l’alto. Lo è la presentazione del suo protagonista, László Tóth – architetto ebreo ungherese sopravvissuto all’Olocausto e immigrato negli Stati Uniti – che, quando esce dal buio della stiva della nave, giunto sul ponte, visibile per la prima volta, guarda in alto. Lo seguiamo, vediamo la statua della Libertà, capovolta. La prospettiva è corretta, l’inclinazione è corrotta. Forse un presagio, forse una dichiarazione di intenti, un attestato di grandezza o di assoggettamento, ma sicuramente assistiamo alla definizione di una linea di sguardo.
È proprio attorno a questa direzione tracciata che si può configurare un discorso sull’ultimo lavoro di Brady Corbet, come un film dove le immagini definiscono un’esperienza che si fa lungo una traiettoria precisa, su diversi piani, ma sempre verticale, come uno sguardo o un’ambizione (verso l’alto), come un posizionamento o una condizione (dal basso).
Dietro la vicenda dell’architetto brutalista a cui un ricco milionario americano commissiona un progetto ambizioso e smisurato (che l’artista difenderà fino alla morte), c’è la vicenda produttiva del film stesso con cui il regista rivendica un’idea precisa di cinema, ambiziosa e smisurata a sua volta.
È un progetto situazionale che rincorre lavorando su un piano materiale e analogico, girando e proiettando in pellicola (in alcune sale anche in Italia), lavorando su una lunga durata (tre ore e mezza), nella quale è prevista anche una fine primo tempo (all’interno del film stesso). Un film che ribadisce, a partire dalla sua natura materiale e dai processi realizzativi e riproduttivi coinvolti, il suo statuto di cinema-cinema (che guarda in alto, per l’appunto, e che è guardato dal basso, come da usanza, che sovrasta).
Attorno a questa disposizione, allora, verso l’alto può essere lo sguardo dello spettatore cinematografico in sala, direzione suggerita dalle stesse inquadrature – come le ricorrenti semi-soggettive di un’automobile, che rasenta l’asfalto verso il proseguire della strada – per un andamento con una sola via di fuga, che educhi una sola direzione di sguardi.
Come a suggerire un movimento di occhi, una direzione di testa, una dinamica spettatoriale che si configura come una posizione: prima di fronte al cinema, poi di fronte al capolavoro di una vita, di fronte all’apparente grandezza degli Stati Uniti, così come ai progetti architettonici di László Tóth (dei quali non si può rinunciare a nessuno degli smisurati metri di altezza).
Guardare in alto significa però anche prendere atto del proprio punto di vista (in basso). Mettendo in crisi così la possibile parabola ascendente del sogno neoliberista tutto, in The Brutalist “guardare in alto” non significa “andare in alto”. E il parallelo forzato diventa quello tra la condizione dell’artista e quella dello straniero: il primo celebrato ma mai compreso del tutto (sempre secondo necessità utilitaristiche), il secondo accettato ma mai integrato del tutto (sempre secondo dinamiche di potere).
Se all’altezza può corrispondere il sogno artistico (il mausoleo in costruzione), il progetto di vita (nuova in una nuova patria), l’ambizione (un’idea di cinema grande, materiale ed estrema); questo coesiste con la definizione di un basso come posizione subalterna (l’artista non compreso) o condizione di emarginazione (lo straniero sotto le spese del ricco magnate americano), ma anche quella di un’esperienza precisa figlia di un’utopia (tanto per chi sta dentro il mausoleo, tanto per chi sta dentro la sala cinematografica).
Questo è quello che Corbet mette insieme, contemplando al suo interno anche tutto il contrario dello slancio verso l’alto, ovvero il buio sotterraneo (come la stiva in apertura e ciò che diventa il mausoleo in chiusura, in dialogo a loro volta con l’idea di cinema come caverna). In The Brutalist sembra tutto ricamato da questa dialettica alto/basso, da questo raggio di visione, da questo movimento, che non è solo una strategia, ma una dichiarazione di statuto. Da qualsiasi punto la si guardi.