“La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Il regista e sceneggiatore scozzese Armando Iannucci ha bene in mente la massima di Karl Marx sul valore storico dei regimi totalitari ed è sulla trasfigurazione grottesca del potere che getta le basi Morto Stalin, se ne fa un altro, uno dei film più quotati per la vittoria del Torino Film Festival di quest'anno che giunge in concomitanza con il centenario della Rivoluzione d'Ottobre.
La morte improvvisa di Josif Stalin nel marzo del '53 scatena il panico tra gli alti membri del Partito Comunista che si ritrovano immediatamente schierati in due fazioni per il controllo del paese: da un lato vi è Nikita Krusciov, futuro leader sovietico, intenzionato a smantellare il sistema di repressione sanguinaria instaurato dal regime stalinista con il suo stesso consenso, dall'altro vi è Lavrentiy Berija, il sadico capo dei servizi segreti intento a manovrare il vice presidente Malenkov per mantenere lo status quo. Ci sono tutti gli ingredienti per un raffinato thriller politico a sfondo storico ma Iannucci, che ha già dimostrato di comprendere le logiche del potere con In the Loop e la serie televisiva Veep, sceglie invece la strada della black comedy per ridicolizzare i complotti di questi piccoli uomini smarriti dopo la scomparsa del loro padrone.
La lotta per la successione dei lacchè di Stalin non ha nulla di machiavellico ma viene messa in scena dal regista come una diatriba infantile tra uomini terrorizzati al pensiero di perdere il loro potere e disposti a compiere qualunque nefandezza pur di mantenerlo. La bravura di Iannucci sta proprio nel mantenere intatto l'equilibrio tra farsa e tragedia: Morto Stalin, se ne fa un altro è un film in cui si ride tanto ma si rimane ancor più spesso spiazzati dalla brutalità dei suoi protagonisti totalmente asserviti alle logiche della dittatura stalinista.
Girato quasi tutto in interni che ricreano l'architettura sovietica degli anni Cinquanta con dovizia di dettagli, il film segue un'impostazione teatrale anche nei dialoghi tra i personaggi. Dall'inizio alla fine lo spettatore è bombardato da una raffica continua di discorsi e battute taglienti che possono risultare estenuanti per un certo tipo di pubblico, ma è proprio nella parola e nel suo utilizzo che ha origine la comicità del film, debitrice diretta dello stile dei Monty Phyton da cui il regista prende Michael Palin per la parte dello stralunato ministro Molotov. L'intero cast del film, truccato come i personaggi di un quadro di George Grosz, brilla per vivacità ed estro comico ma una menzione a parte va fatta a Steve Buscemi, perfetto nella parte di Krusciov, e a Jeffrey Tambor che con il suo ministro Malenkov incarna alla perfezione la spietata imbecillità del regime sovietico.
Morto Stalin, se ne fa un altro è una dissacrante riflessione su uno degli eventi cardini del Novecento che, attraverso la forza dell'ironia, illumina lo spettatore sulle follie del potere e sul loro incessante ripetersi all'interno della storia umana, senza mai dimenticarsi del potere rivelatore e liberatorio della risata.