Ne avevamo parlato su queste pagine circa un anno fa: con West Side Story, Steven Spielberg firmava la sua lettera d’amore più vibrante ed esplicita nei confronti del cinema e proclamava tutta la sua Fede nei confronti di questa passione. Oggi, con The Fabelmans, il regista di Cincinnati sembra voler ripartire proprio da lì. Dopo essersi dichiarato reo confesso, prova ora a raccontare alla corte, pardon al pubblico, le ragioni che lo hanno spinto a seguire questa religione. Se infatti è vero che il film si incanala, proprio come i recenti lavori di Paul Thomas Anderson, Kenneth Branagh, Paolo Sorrentino, Richard Linklater, James Gray e molti altri, in quella che possiamo serenamente definire una costante autoriale degli ultimi anni (ovvero il ritorno malinconico al proprio passato, alla propria infanzia/adolescenza) – con cui tra qualche tempo dovremo iniziare a fare i conti per analizzare gli esiti di questo processo – è anche vero che The Fabelmans non è solamente un film che racconta, in maniera romanzata, la vita di Steven Spielberg, ma prova ad argomentare con fare più trasversale quanto la Fede cieca dal sapore quasi dogmatico di cui sopra sia in realtà più una Fiducia nei confronti di una certezza algebrica.
In tal senso il connubio tra mamma e papà (due eccellenti Michelle Williams e Paul Dano) non è tanto uno scontro tra Arte e Scienza (pianista lei, ingegnere elettronico lui), quanto un abbraccio complementare dal quale non può che nascere un miracolo chiamato cinema (il figlio Sammy, alter ego più che esplicito di Spielberg con cui condivide la prima lettera del nome). Ereditando la creatività di lei e l’ingegno pragmatico di lui, il ragazzo inizierà a percepire il cinema come il connubio perfetto in grado di unire le emozioni alla tecnologia in grado di catturare le immagini in movimento: (e)motion picture.
Da qui prende il via la grande argomentazione di Spielberg. The Fabelmans è un film a tesi. Il suo regista è talmente convinto di aver ragione, convertito al suo Credo, che prova a dimostrare come lungo tutto il Novecento non ci sia stata nessun’altra arte capace di tenere testa a quella cinematografica. Dalle cineprese super 8 alla pellicola in 16 millimetri; dall’uso del colore e della luce a quello del suono e della musica; dall’innamoramento di due adolescenti alla separazione di due genitori (sì, anche questo è cinema, come dimostra la bellissima scena della danza o quella dell’analisi alla moviola). La settima arte ha segnato le tappe della vita di Spielberg, ne ha tracciato il profilo, il suo orizzonte (e non usiamo questo termine casualmente).
Ecco allora che The Fabelmans è sì un tuffo nella vita del suo regista ma, di conseguenza, si rivela un viaggio all’interno della sua filmografia. Non si contano gli spiritosi omaggi e le rime interne che rimandano ai suoi film precedenti (le biciclette di E.T. l’extra-terrestre, il manuale su come salvare qualcuno che sta annegando, la porta retroilluminata di Incontri ravvicinati del terzo tipo, la guerra di Salvate il soldato Ryan ecc.), questo perché la vita di Spielberg non è stata accompagnata dal cinema, ma perché è essa stessa cinema, una medicina che rende migliore la vita, che le dà più sapore.
Così, come dimostra l’ultima sequenza (già entrata di diritto nell’antologia della Storia di questo settore), al cinema non c’è spazio per la realtà. Essendo una via di fuga, essendo uno spazio in cui migliorare la nostra esistenza, il piattume di uno sguardo non filtrato, ad altezza occhi, “banale”, deve essere evitato come la peste in nome di un’idea, un’intuizione, un’inclinazione visiva in grado di spalancare i nostri occhi e destare meraviglia. Questa è la Fiducia costruita da Steve Spielberg. Questa è la nostra Fede.