Automaticamente novecentesco, ossessivamente autoreferenziale e eccessivamente formale Wes Anderson lo è praticamente da sempre. E The French Dispatch, suo ultimo lavoro, non si pone certo come taglio netto o massima summa del suo cinema. Ma con questo omaggio – che il regista texano, da anni idealmente trapiantato in Europa, riserva a una vecchia idea di giornalismo, nello specifico al “New Yorker” e a un gruppo di storiche firme alle quali il film è dedicato – Wes Anderson sembra prestarsi a un occhio più consapevole e, in un senso molto lato, finalmente compiuto.

Innanzitutto The French Dispatch – così come il direttore Arthur Howitzer Jr. guarda al piano editoriale dell’ultimo numero del giornale appeso al muro del suo ufficio o come i reporter dei tre capitoli-articoli principali si approcciano ai personaggi che raccontano o, ancora, come si dice che lo stesso Wes Anderson tenda a fare prima di girare i suoi lavori – è un film che ha bisogno di essere visualizzato a distanza, facendo un passo indietro, guardato contemporaneamente dall’inizio alla fine, dalla prima all’ultima pagina, per intero, ma scomposto.

Da questa prospettiva la forma-rivista è chiarissima e perfettamente accordata. Ci troviamo di fronte a un film scandito per pagine, suddiviso in articoli (un necrologio, un breve servizio e tre reportage principali), con pagine a colori, in bianco e nero, inserti animati, forme e formati diversi. Esplicitamente letterario, addirittura più giornale che film se si pensa che l’unità spaziotemporale è scampata in continuazione a favore, come d’abitudine, di una serie di quadri scomposti e non sempre connessi fra loro. È infatti dentro ai tableaux vivants che Wes Anderson inquadra, a ribadire che, di fatto, il “cinema” nella sua filmografia sta più nei quadri che nelle scene.

Senza sorprese, c’è tutto quello che ci si poteva aspettare. Ovviamente c’è l’Europa e il Novecento, filtrate dal subconscio cinefilo di Wes Anderson che guarda al Sessantotto con Godard e al noir con Clouzot, pensando in continuazione a Jacques Tati. Non mancano neanche la classica folla di attori (Benicio del Toro, Frances McDormand, Tilda Swinton, Owen Wilson, Bill Murray, per dirne solo alcuni) e l’organizzazione a film collettivo dove ogni piccola parte, pur sembrando autosufficiente, appartiene indissolubilmente a un tutto più grande: hotel (Grand Budapest Hotel), campo scout (Moonrise Kingdom) o rivista che sia.

L’indice di questo ideale ultimo numero del “French Dispatch”, supplemento del fittizio “Liberty, Kansas Evening Sun”, che il film mette in scena, ha tre nuclei principali, tre ritratti di celebri artisti geniali, ma irrisolti: un pittore-galeotto che impiega anni per realizzare un’opera di cui non è mai soddisfatto, un poeta-attivista vittima della stessa stesura (e correzione) del suo manifesto incompleto e un cuoco che si accorge tardi dell’esistenza di sapori mai provati. La loro arte irrisolta si reitera nella parzialità dello sguardo distante – e quindi manipolato – dei giornalisti che narrano la storia, perfetti outsider di vicende travisate, fraintese, sbagliate… The French Dispatch allora è una serie di ritratti incompiuti, che necessitano di più tempo, di più spazio, di più carta.

Spetta al personaggio di Bill Murray – che sembra mettersi in campo come alter ego del regista – imporsi come coscienza interna consapevole di questa irrisolutezza alla quale cerca di dare soluzione, di trovare alternativa, di smussare angoli, ma che allo stesso tempo accetta, rilancia e fa propria, così come per l’appunto Anderson fa da sempre con i suoi personaggi e qui sembra fare anche con il suo cinema, suggerendo una sincera presa di coscienza.

The French Dispatch non è il punto più “alto” della carriera di Wes Anderson (se mai “alto” significasse qualcosa), ma quello più consapevole, più autonomo, autosufficiente, compiuto nella sua incompiutezza. Che il regista, come suggerisce uno dei suoi personaggi, stia facendo “sembrare di averlo scritto così di proposito” non ci è dato saperlo, ma poco importa. Perché Wes Anderson – come il personaggio di Del Toro dimostra di saper disegnare perfettamente quell’animaletto – sa cos’è la narrazione precisa e lineare, eppure esplicitamente non gli interessa, preferendo la digressione, il cinema di sensazione.