Non c’è dubbio che il teatro di Florian Zeller, prima ancora del suo cinema, rappresenti un’indagine pervicace e scomoda sulla famiglia, sulle sue disfunzioni, sul rapporto genitori-figli e sul costante rovesciamento delle parti. Si tratta di una lente d’ingrandimento che passa in rassegna tutte le psicologie coinvolte, dagli automatismi ai rapporti di repulsione e dipendenza affettiva, smascherando la famiglia come al contempo condanna e salvezza dell’animale sociale.
The Son, il secondo capitolo di un’ideale trilogia che si chiuderà con The Mother, arriva a due anni dal successo internazionale di The Father, trasposizione cinematografica dell’omonima pièce che ha valso a Zeller e a Christopher Hampton un Oscar per la migliore sceneggiatura non originale (e ad Anthony Hopkins il secondo Oscar come migliore attore protagonista della sua carriera). Un esordio dietro la macchina da presa che ha senza dubbio lasciato il segno, oltre che per un intenso lavoro sugli interpreti, anche per una mise-en-scène non propriamente convenzionale.
In questo senso, The Son si sposta dalle tavole del palcoscenico al grande schermo percorrendo territori meno affascinanti e più uniformi, sia visivamente che come struttura narrativa. Questa scelta non deve essere necessariamente intesa come “un passo indietro”. Sì, perché mentre The Father scandagliava i meandri della demenza senile e il rapporto tra padre e figlia nel momento di decadimento del genitore, The Son punta il faro sulla depressione, spostando lo sguardo generazionale verso l’adolescenza e l’impatto di una separazione. E se The Father sfruttava pienamente le possibilità del mezzo filmico per restituire un senso di spaesamento surreale e opprimente che risultasse prima di tutto passionale, la chiarezza stilistica di The Son seppellisce l’angoscia sotto una coltre di concause solo all’apparenza lineari.
Nicholas (Zen McGrath) ha diciassette anni e soffre indicibilmente per il divorzio dei genitori. La convivenza con sua madre Kate (Laura Dern) è tesa e difficile, il ragazzo diserta la scuola e sembra non riuscire a intessere amicizie durature. Un male di vivere oscuro si è impossessato di lui e, nel tentativo di sfuggirgli, Nicholas decide di trasferirsi dal padre Peter (Hugh Jackman) e dalla sua compagna Beth (Vanessa Kirby).
Nonostante gli impegni lavorativi sempre più opprimenti, Peter ce la mette tutta per empatizzare con la condizione del figlio, pensando a come avrebbe voluto che suo padre — Anthony Hopkins, che Zeller conferma essere lo stesso personaggio di The Father — si prendesse cura di lui. Ma il male di vivere di Nicholas si è radicato a fondo nel suo cuore e non ha più solo a che fare con una “fase”, né con un momento di spaesamento. Nicholas è affetto da una depressione che si è ormai cronicizzata e Peter sembra incapace di trovare dentro di sé gli strumenti che possano allontanare il suo adorato figlio dal baratro.
La forza di The Son sta proprio in questo: rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.
Lo spettatore finisce quindi per riconoscere la fatica fisica ed emotiva di Peter, le preoccupazioni di Kate e i sospetti di Beth, consapevole di tutte le motivazioni dei personaggi, della loro storia, e conservando un lucido distacco rispetto alle loro azioni. Ma l’incomunicabilità e le difficoltà estreme che persistono nell’interfacciarsi con Nicholas demoliscono tutte le convinzioni circa i rapporti di causa-effetto e, soprattutto, inducono domande profonde che stanno alla base della famiglia borghese così come la conosciamo. Qual è lo scotto da pagare quando si decide di mettere al mondo un essere umano? Nel tentativo di sottrarsi agli errori del passato, quanto sfuggiamo al presente? Come tracciare i confini delle responsabilità e dei sensi di colpa? Quanto può essere ingombrante l’amore che si nutre nei confronti di un figlio?
Questi enigmi esistenziali non sono destinati a trovare una soluzione univoca, ma semplicemente a tratteggiare i contorni delle risposte possibili. A farlo interviene un cast d’eccezione che porta in scena l’eterno fardello dei ruoli in cui siamo costretti dalla nascita: su tutti, uno straordinario Hugh Jackman e un giovanissimo Zen McGrath contribuiscono a identificare processi psicologici in un incontro-scontro che coinvolge drammaticamente anche i personaggi femminili (solo all’apparenza “ai margini” della storia). E anche Anthony Hopkins, qui in una parte “piccola” ma potentissima, rivela la complessità della scrittura di Zeller che ci lascia a rimuginare per ore su temi familiari ma che odorano di tabù, da sempre.
Prima di essere padri si è figli, e le colpe dalle quali cerchiamo di smarcarci ne creano inevitabilmente di nuove. Qualcuno potrà giustamente obiettare che The Son venga appesantito da una serie di scelte stilistiche e di pre-finali che ne smorzano la forza emotiva. Ma se Zeller finisce per affidarsi completamente agli attori scelti per veicolare turbamenti e trepidazioni, sta a noi farci carico dei quesiti che il film mette in scena. Una responsabilità grande e ingombrante, certo, che può però ispirarci ad affrontare ciò che costantemente rifuggiamo.