Quando Victor Sjöstrom lascia la Svezia nel 1923 per avviare una carriera negli Stati Uniti, avvengono due cose: modifica lievemente suo cognome anglicizzandolo in “Seastrom” e abbandona quasi del tutto il suo caratteristico registro sottile ed evocativo, probabilmente a causa delle pressioni da parte della Metro-Goldwyn-Meyer guidata da Louis B. Meyer, poco aperta a un cinema europeo e scarsamente commerciale. The Wind (1928) è l’eccezione, ed è il tentativo di ricomporre gli elementi propri di una regia che si fonda sull’incontro tra psicologia e natura, tra mente e sovrannaturale, tra uomo e paesaggio.

Il ritorno ad un cinema psicologico dove i conflitti interpersonali sono immediatamente riflessi nella presenza incombente degli elementi della natura, come in I figli di Ingmar (1919) dove il paradiso viene rappresentato sotto forma di un’immensa distesa rurale, è quindi un’ultima e definitiva traccia del complicato ed eterno rapporto tra uomo e natura, anche qui siglato da soluzioni tecniche proprie dello stile di Sjöstrom, quali sovrimpressioni, dissolvenze incrociate, e doppie esposizioni.

La forza del vento che scava le coscienze, resa spettacolare da una regia spiazzante e di puro dinamismo, si contrappone alla docile presenza di Lillian Gish, qui nei panni di Letty, una fragile ragazza della Virginia che sposa un uomo che non ama e che cade vittima di un vecchio spasimante con intenzioni violente. Perseguitata dal vero protagonista della vicenda, un vento che non si ferma mai, Letty abbraccia il culmine della follia, compiendo un gesto finale ed estremo. L’ultima inquadratura (Letty e Lige abbracciati e mossi da raffiche più tranquille) suggella un accordo/rapporto di pace e tregua tra uomo ed elemento: una chiusura degna e giusta, sicuramente non definitiva, ma simbolica per quello che è il cinema di Sjöstrom. 

Ultimo film muto americano prodotto dalla MGM prima del ritorno in terra svedese, The Wind risulta essere all’epoca un film tutt’altro che facile da girare. Si può solo lontanamente immaginare come le forti e roventi raffiche di vento (artificiale, in quanto create dai motori di aeroplani portati sul set), nonché le temperature estreme del deserto del Mojave abbiano influito sulla resistenza fisica (nonché psicologica) degli attori durante la scena della traversata a cavallo nella desolazione più totale.

Superati questi ostacoli durante la fase di lavorazione, completata nell’estate del 1927, The Wind trova in seguito un avversario meno temibile eppure più insidioso: The Jazz Singer (1927) che sconvolge per sempre le sorti del cinema muto. Distribuito un anno dopo, proprio per aggirare eventuali spiacevoli risultati dovuti al successo della bomba sganciata dalla Warner Bros., The Wind è comunque un fallimento, venendo liquidato semplicemente come “western americano” e immediatamente dimenticato in seguito agli incassi deludenti.

Nonostante ciò, The Wind viene ricordato con orgoglio da Lillian Gish, qui nella sua prova attoriale più impegnativa, nonché l’ultima muta. Prova estrema che non può non evocare, sebbene all’opposto,  quella di Way Down East (Agonia sui ghiacci, D.W. Griffith, 1920) dove la stessa Gish si vede costretta a reggersi su lastre di ghiaccio a mani nude senza l’ausilio di controfigure. Un’ulteriore e riuscita sfida contro altri elementi della natura, non nel racconto ma nella realtà.