Particolarmente propensa a racconti di formazione al femminile, Gina Prince-Bythewood (Love & Basketball, La vita segreta delle api, Beyond the Lights - Trova la tua voce) torna con The Woman King, un film ambizioso che coniuga il tema di genere con la Storia africana in uno sguardo al passato che si fa metafora del presente.
Basandosi su eventi reali e frutto di una lunga e approfondita ricerca il lungometraggio rilegge il mito della guerriere Agojie, un corpo di impavide Amazzoni a servizio del Regno di Dahomey che tra il 1600 e il 1900 si contraddistinse nella cattura e tratta atlantica degli schiavi. La sceneggiatura trasforma le guerriere in difenditrici della patria votate all’indipendenza dal dominio dell’Impero Oyo e dai suoi legami con i trafficanti di uomini europei e americani. Un’operazione che non ha intenti di falsificazione storica quanto di riflessiva rilettura di un ruolo sociale ancora oggi troppo sottovalutato.
Al mitico esercito si erano già liberamente ispirati Ryan Coogler e Joe Robert Cole per le truppe Dora Milaje della serie Black Panther. Ma se il secondo capitolo Wakanda Forever ha miseramente fallito nella costruzione di un’eroina capace di sostituire Re T’Challa – la sorella Shuri risulta una figura senza spessore psicologico, che veste solo temporaneamente i panni del personaggio di Chadwick Boseman in attesa del già promettente nipote-erede Toussaint come si evince dalla scena extra – diverso è il discorso per The Woman King.
La giovane Nawi, ceduta dal padre adottivo al Re Ghezo per via del carattere indomabile e addestrata dalle guerriere della Generale Nanisca, incarna un nuovo modello cinematografico di donna capace di convogliare in sé gli aspetti valorosi e intrepidi dell’eroe con una sensibilità prettamente femminile. Il personaggio viene sì a eccellere nell’ars bellica del corpo armato pur difendendo e ribadendo una sua indipendenza emotiva, che non è debolezza ma umanità: simpatizza con il penitente mercante di schiavi Malik e più volte riequilibra gli eccessi virili delle sue compagne trasformate dalla violenza e dall’aggressività in una versione femminea dei guerrieri affianco o contro i quali combattono. È lei infatti a salvare Nanisca da fine certa, aiuta una matricola alla pari a superare la prova di iniziazione, cura e protegge Izogie durante la prigionia, atteggiamenti rimproverati dalle sue superiori ma che in definitiva si fanno espressione di una personalità integra e completa.
Se la donna re del titolo si riferisce a Nanisca che viene incoronata da Ghezo per l’abnegazione verso di lui e la causa del suo popolo, Nawi figlia ripudiata dalla donna frutto di uno stupro subìto in gioventù, ne incarna il lato più femminile che nel tempo è stato soffocato dalla dura disciplina militare impostasi. Sono due facce della stessa medaglia, espressione dell’eterno conflitto tra il valorizzare la propria diversità di genere o sopprimerla in un’imitazione quanto più fedele della controparte. Un discorso delicato che la regista prova a innestare in un prodotto commerciale che strizza l’occhio a racconti storico-epici hollywoodiani come L’ultimo dei Mohicani, Braveheart o Il gladiatore – indicati dall’autrice stessa come fonti d’ispirazione – riuscendo nel suo intento di rilettura dell’iconografia legata all’afroamericano.
Concepiti ancora spesso nel cinema statunitense come schiavi e deboli bisognosi di appellarsi a salvifiche figure (possibilmente bianche) piuttosto che nobili guerrieri e re pronti al sacrificio per il bene proprio e altrui, le Agojie sono presentate così come anticipatrici di quello spirito inarrendevole che ha caratterizzato la storia dell’Africa prima e degli afroamericani poi. Una resilienza che ancora oggi si fa tratto distintivo del nero statunitense, vessato, umiliato, discriminato, maltrattato ma in grado di continuare strenuamente la battaglia per l’affermazione della propria uguaglianza sociale, culturale ed etnica.
È forse qui però che il film mostra la sua pecca maggiore: nel traslare una lettura americana del passato africano con la chiara volontà di tracciare un collegamento storico con il discorso contemporaneo, la regista finisce per dare una rappresentazione idealizzata del passato africano. Come Black Is King di Beyoncé anche The Woman King offre un’immagine patinata del continente nero, con scultorei attori e attrici impegnati in una rivisitazione di dinamiche, stili e narrazioni tipicamente hollywoodiane.
Ne esce così un godibile prodotto d’intrattenimento che funziona dal punto di vista concettuale legato alla dimensione americana, ma fallisce nella sua rappresentazione afro. Un’opera imperfetta che dimostra ancora l’antica rottura con le proprie radici originarie dovuta alla Diaspora storica, ferita interiore che l’arte e la cultura black stanno cercando di sanare in maniera apprezzabile ma non sempre del tutto convincente.