Misconosciuto, sottovalutato, trascurato: la sorte dell’opera seconda di François Truffaut non fu felice. Eppure Tirate sul pianista è un film a dir poco geniale, con una trama accattivante, una sceneggiatura in perfetto equilibrio tra i generi (noir, commedia, dramma), ottime interpretazioni attoriali e il giusto rapporto tra ironia e malinconia.

Nella sua fuga da due malviventi, dopo aver amabilmente conversato d’amore con un estraneo, Chico coinvolge il fratello Charlie (Charles Aznavour), musicista in una boîte ma con un passato di grande pianista. Poiché questi aiuta Chico a seminare gli inseguitori, il racconto “passa il testimone” al suo vero protagonista, che si ritroverà a fuggire insieme ad un’amica coinvolgendo anche gli altri fratelli. Non si può dire che lo sviluppo narrativo di questo film segua una logica stringente: il percorso è una corsa ad ostacoli, ci sono delle fermate intermedie che smorzano la tensione di volta in volta accumulata, vari détour approfondiscono i bellissimi personaggi e in particolare il passato del protagonista.

Si rimane storditi a ogni cambio di passo, perché ciò significa abbandonare il poliziesco per lasciarsi condurre in una storia romantica o scontrarsi improvvisamente e inaspettatamente con una tragedia. Lo stesso Truffaut era consapevole del fatto che questo film sconcertasse tutti e anche oggi molte scelte registiche e narrative stupiscono ancora. Tirate sul pianista rende libero un racconto che non dovrebbe esserlo, nella logica dei generi, facendo raggiungere al film momenti di alta tensione drammatica come pure di grande romanticismo e di grandissima profondità sentimentale.

A buon diritto Pierre Kast sui Cahiers du Cinéma nel 1961 elogiava il film affermando che in esso “Truffaut aveva filmato la timidezza come non era ancora stato fatto”: ogni espressione di Aznavour è al servizio della costruzione di un personaggio sfaccettato, timido e malinconico, disilluso e protettivo. Talvolta sentiamo la sua voce fuori campo parlare a sé stesso (memorabili la scena in cui cerca di prendere la mano della sua accompagnatrice o quella dell’ultima discussione con la moglie), ma questa voice over è indubbiamente anche quella di Truffaut che si rivolge al suo Charlie, creando una sottile ambiguità e una rottura della quarta parete che da un canto si allinea ai procedimenti stilistici della Nouvelle vague ma dall’altro esplicita l’affetto che il regista francese dimostra sempre per i suoi personaggi.

La cura per i caratteri di questo film è infatti evidente, tanto per il protagonista quanto per i comprimari. Risaltano in particolare le figure femminili: la moglie Thérèse (Nicole Bergier), l’amica e compagna Léna (Marie Dubois) e la prostituta Clarisse (Michèle Mercier) sono tutte donne molto forti, ben delineate, con una spiccata individualità. Anche i rapporti tra i vari personaggi (sia tra i fratelli sia tra uomini e donne) sono costruiti magistralmente, tra tenera delicatezza e scavo psicologico, e sono questi a rappresentare il cuore del film, al di là degli inseguimenti, dei rapimenti, delle sparatorie con cui Truffaut intende rendere omaggio anche a un certo cinema americano di genere (il B-Movie, il poliziesco).

Un’ultima nota, per sottolineare l’aspetto sonoro del film: essendo il protagonista del film un pianista, la musica ha naturalmente una grande importanza. La colonna sonora è scritta da Georges Delerue (di cui ricordiamo, tre le collaborazioni che precedono questo film,  quella con Alain Resnais per Hiroshima mon amour e con Claude Sautet per Asfalto che scotta) ma comprende anche brani di Félix Leclerc e di Boby Lapointe, che interpreta il cantante della spassosa e sbilenca Framboise.