Il risoluto titolo, rimpolpato poi dalla distribuzione italiana, contiene ostensibilmente i due focus della pellicola: l’immondizia e le sciocchezze. La prima appare, nelle varianti materiali e metaforiche, visibilmente; mentre le facezie sono fornite attraverso i fitti scambi di battute dei personaggi.
Girato nell’arco di otto sabati pomeriggio, che marcano tanto la casualità del piano di lavoro quanto la scansione narrativa, Trash – I rifiuti di New York (Trash, 1970) di Paul Morrissey è il secondo tassello di una trilogia composta dal precedente Flesh (1968) e dal successivo Heat (1972), in cui l’elemento accomunante è la presenza, come protagonista, di Joe Dallessandro, oggetto del desiderio delle donne.
La tangibile spazzatura evocata dal titolo è tutta quell’oggettistica ripescata nei traboccanti cassonetti dei rifiuti da Holly Sandiago, che vede in essi ancora rilucente vita, poiché sono cose che possono essere riutilizzate, per abbellire la piccola alcova in cui vive con Joe, benché l’appartamento sia una masserizia. Ma la spazzatura citata, in termini metaforici, sono i personaggi, rifiuti scartati dalla società che li reputa feccia, e pertanto in simbiosi con l’immondizia conservata. E Joe è un rifiuto completo, essendo un junkie che, sebbene di bell’aspetto e ben messo, soffre d’impotenza a causa dell’abuso di droghe. Desiderato dalle donne, non può soddisfare quelle costanti richieste. Un (s)oggetto rotto, quindi un rifiuto.
Sono rifiuti, nell’accezione di squallidi, anche i personaggi della middle class. Tre tipologie in cui è possibile vedere l’ipocrisia di questo ceto ritenuto rispettabile. Il giovane studente del quartiere di Yonkers, che si addentra nei bassifondi per comprare di nascosto la droga e vuole andar via rapidamente da quel lurido appartamento. I novelli sposi borghesi, progressisti che desiderano osservare dal vivo come ci si fa una pera, ma quando Joe va in overdose lo sbattono fuori di casa senza tanti problemi etici. Il consulente del sussidio, un omosessuale con tanto di spilla per la pace, prima di sedersi chiede uno straccio per pulire la sedia, e giunge persino a ricattare Holly se non gli regala le argentate scarpe con tacco (trovate nella spazzatura), che certamente poi indosserà di nascosto, sebbene affermi che le userà per decorare un abat-jour.
Tutti personaggi che Morrissey ci presenta in interni, con soltanto tre brevi sequenze in esterno, nei bassifondi di New York, per evidenziare lo squallore urbano in cui vivono questi reietti scartati. Un kammerspiel “pauperistico”, produttivo e veritiero, in cui i personaggi si confrontano e si scontrano tramite fitti dialoghi insulsi, come spesso accade nella realtà, per evidenziare il livello dei loro interessi principali.
Trash ha rappresentato uno step importante nella carriera di Morrissey. Dopo le iniziali opere sperimentali, “goliardici” happening filmici, già con il precedente Flesh il regista, autore anche di soggetto e sceneggiatura, vuole fare un cinema underground di matrice documentarista. Le provocazioni, ossia nudi e turpiloqui, rimangono, ma sono necessarie per descrivere quella realtà. Dallessandro è sovente in full frontal, ma ciò perché è un oggetto bramato. E la prima scena, un close-up del suo deretano, diviene sorniona citazione dell’apertura di Flesh: lì il primo piano del volto dormiente dell’attore, qui un mesto sedere.
Un approccio documentaristico che ha come obiettivo focalizzarsi sui dettagli (volti, mani e altre parti del corpo) e sui particolari (la strumentazione per bucarsi, l’iniezione di eroina di Joe). E tale regia si rifà, in un certo qual modo, al naturalismo, che studia, e/o spia, gli emarginati, cui poi non appone nessun giudizio morale, né catarsi. Una grezza tranche de vie, però sardonica.
Di Trash diviene interessante anche la versione italiana, curata da Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini. Usualmente in fase di doppiaggio si pone maggiormente il problema della sincronia labiale, e in seguito la scelta delle giuste voci. In questo caso, sebbene possa sembrare una scelta straniante, l’operazione diviene filologica. Trash racconta di (sotto)proletari che parlano in slang, quindi Pasolini e la Maraini scelsero, per sostituire il dialetto originale, intonazioni di carattere borgataro, lontane dalle meccaniche dizioni dei doppiatori professionisti.
Joe e Holly, ma anche gli altri personaggi, potrebbero essere la nuova espressione dei borgatari romani di fine anni Sessanta o inizio anni Settanta. Nel medesimo periodo, Pasolini stesso lamentava come la nuova gioventù delle periferie era diventata brutta, dedita alla droga. Si erano trasformati in rifiuti, sebbene mai usò detto termine.
Questo degrado, materiale e metaforico, sarà poi rappresentato in Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, cruda disamina – caustica – dei junkies dell’estrema periferia romana d’inizio anni Ottanta, che sopravvivono e muoiono nel loro habitat.