È il 1962 quando Gianni Amico si reca per la prima volta in Brasile, sulle tracce di due sue grandi passioni: il Cinema Nôvo e la musica latinoamericana. Ed è nel 1968 che esce, dopo alcuni corti e mediometraggi, il suo primo lungometraggio di finzione, Tropici.
Si tratta di una creatura ibrida, nella quale la finzione narrativa si interfaccia e si mescola alla forma documentaria, della quale Amico ha ampia esperienza: Tropici racconta infatti il pellegrinaggio di una giovane coppia con due figli piccoli dalle terre siccitose e poverissime del nordest brasiliano sino alla grande città di San Paolo, in cerca di lavoro, interpolandolo con riprese, voce fuori campo e cartelli a illustrare le condizioni socioeconomiche del paese, fra miseria dei salari e crescita demografica; quasi in chiusura del film, il protagonista maschile sfoglia un quotidiano e, rivolto direttamente alla cinepresa, riporta le notizie del giorno (ma sarà il personaggio o l'attore?).
Sin dal titolo, Tropici annuncia come non abbia intenzione di parlare del solo Brasile, ribadendo poi al suo interno come i brasiliani possano essere considerati i rappresentanti prototipici di tutto il Terzo mondo. E sin dai titoli di testa, con l'allegra musica di accompagnamento che a tratti si spezza seccamente per riportare il silenzio, il film mostra e stigmatizza i suoi dispositivi retorici in accordo coi dettami della Nouvelle vague.
E proprio per la sua commistione fra aspetti neorealisti e Nouvelle vague, la pellicola può rientrare a pieno titolo nella filmografia del Cinema Nôvo, del quale Amico è stato peraltro il principale promotore e divulgatore in Italia, mantenendo stretti rapporti con i suoi principali esponenti, in particolare Glauber Rocha.
Amico, attento alla lezione rosselliniana, porta sullo schermo con intento didattico e politico quello che prima non pareva degno di essere raccontato e posto all'attenzione del pubblico occidentale. E lo fa con pudore, con quel tanto di finzione necessaria a mettere in scena una storia minima esemplare, quella di un gruppo familiare che si muove non tanto da un capo all'altro del paese, ma dal latifondo al capitalismo senza alcuna vera possibilità di scelta personale.
Tropici centellina i primi piani – eppure davvero intensi quando occorrono – come a non voler fondare l'argomentazione su un piano emotivo, come se la semplice descrizione della quotidianità dei suoi protagonisti, ritratti a una certa distanza, bastasse a rendere ragione della loro condizione. Non c'è nulla in Amico del lirismo di Vittorio De Sica, mentre la predominanza netta di lunghe inquadrature e piani sequenza rimanda agli stilemi del documentario osservazionale.
Il protagonista, al centro dello schermo e rivolto agli spettatori, legge dal giornale notizie da tutto il globo. Sono notizie che non hanno nulla a che fare apparentemente con la sua esistenza di ogni giorno, eppure tutto hanno a che fare con la natura del mondo che determina le sue penose vicissitudini. Approssimandosi al finale, i cartelloni pubblicitari e i marchi delle grandi corporation che già erano sullo sfondo passano al centro dell'inquadratura, e su uno di essi si chiude il film.
Nel 1968 il mondo non era ancora globalizzato a livello comunicativo, ma tutto era già interrelato. E questo Gianni Amico l'aveva ben chiaro.