La sequenza più spettacolare di Twisters si svolge all’interno di un cinema. Il mostruoso tornado spazza letteralmente via il grande schermo (sul quale sta andando in scena una proiezione di Frankenstein, a proposito di mostri) mettendo a repentaglio le vite della platea e tramutando la loro paura da divertimento a incubo concreto. In questo atto trasformativo, in questa intuizione meta testuale, è racchiusa la chiave di volta del film di Lee Isaac Chung (sorprendentemente alla regia di un blockbuster di queste dimensioni dopo il successo del ben più intimo Minari).

Il cinema contemporaneo ha ormai sdoganato il riciclo del passato. Remake, prequel, sequel, spin-off e altre amenità popolano costantemente il mercato provando a lavorare sul recupero nostalgico di un glorioso passato impossibile da imitare oggi, ma facile da replicare e (ri)sfruttare.

Twisters non è da meno. A cominciare dalla quasi totale omonimia con il capitolo originale, la “piccola” gemma cult degli anni Novanta, il film si inserisce perfettamente in un solco consolidato e di successo limitandosi, si fa per dire, ad ampliarne gli orizzonti e la dose di spettacolo. Il plurale del titolo odierno è quindi sintomatico di un progetto pressoché identico all’originale,  ma volenteroso di aumentarne il volume. Più effetti digitali, più decibel, più protagonisti, più (banalmente) tornado. Non sono gli anni in cui provare ad alimentare nuovamente l’immaginario. È meglio ricalcarlo, prenderlo in prestito, e cavalcarlo al doppio della potenza.

Non è un caso, quindi, che lo schermo del cinema venga lacerato dalla forza bruta della Natura. Lo spettacolo (posticcio) della sala cede il passo a quello di un uragano (digitale). Non è più tempo di emozioni derivate dal grande schermo: è tempo di emozioni innate in esso. Lo sguardo di Twisters è di conseguenza uno sguardo immersivo, calato dentro l’occhio del ciclone e non finalizzato a seguirne le gesta, a dargli la caccia.

Il cinema contemporaneo non può più creare un consenso, non ha più niente di fantasioso da proporre. Quello che si sta limitando a fare è quindi abitare i confini precedentemente costruiti, attraverso progetti che nascono, si alimentano e muoiono (?) all’interno di un ambiente già ampiamente consolidato ma destinato, prima o poi, a scomparire.

Fateci caso: quanti simboli dell’iconologia statunitense vengono contemplati dalle cineprese della regia? Il western, il baseball, le bandiere, il divismo e via dicendo. Twisters lavora su questi elementi del passato per tematizzare un presente muscolare e spietato, che cerca un confronto con i tempi che furono per prevaricarli e poter mettere in bella mostra la sua più sgargiante e magnetica forma estetica senza dimenticarsi, però, di ricordarsi e ricordarci quale sia l’origine della sua natura.

E se il tutto vi ricorda la tendenza di una certa politica internazionale che sta trovando sempre maggior consenso negli ultimi anni, forse non si tratta di una coincidenza.