"Noi siamo sempre sulla scena, anche quando pensiamo di essere assolutamente spontanei e sinceri nelle nostre reazioni dinanzi agli altri" (Erving Goffman).

Una delle strade per una prima analisi del nuovo film di Mia Hansen-Løve è una sua dichiarazione dell’agosto del 2016 rilasciata al The Guardian: “Quando avevo 20 anni, ero completamente delusa dalla vita. Desideravo fare film e questo mi ha dato più forza. Perché il cinema è una continua messa in discussione dell'esistenza: che cos'è la bellezza? Perché sto vivendo? E io ne ho bisogno, forse perché sono figlia di due insegnanti di filosofia”.

Un bel mattino infatti potrebbe sembrare (solo in apparenza) un piccolo (bel) film. Se la storia principale, infatti, intreccia la vita di una giovane traduttrice (l’affascinante Léa Seydoux) con quella di un uomo maturo e già sposato (un convincente Melvil Poupaud), dall’altro è invece più centrata nel raccontare le vicende del padre (Pascal Greggory) della protagonista, professore di filosofia colpito dalla devastante sindrome di Benson. E se nel primo blocco narrativo si pecca di (solo apparenti) estreme ovvietà (visive e drammaturgiche), sul secondo si compiono le migliori scelte filmiche e spettatoriali.

La rappresentazione della malattia e la cura degli anziani nella storia del cinema hanno (solo recentemente) avuto il giusto interessamento anche nella ricerca accademica e sembrano (nell’ultimo decennio) avere avuto appiglio felice nelle produzioni: la sindrome di cui soffre il (secondo?) protagonista del film ha inoltre a che fare con la memoria, una componente metaforica e significale molto presente nel cinema della ex critica francese. L’incipit, come suggerisce anche  Jean-Marie Samocki sui Cahiers du cinéma, è significativo (“Fin dalla prima scena di Un bel mattino, Mia Hansen-Løve suggerisce un sentimento di familiarità mettendo insieme gli elementi autobiografici seminati nei suoi film precedenti”) e racchiude i topoi di tutto il film, lasciando una scia riflessiva su diversi componenti, che non sono semplicemente, come già si è detto, legati al malessere della protagonista, ma a linee meta testuali ben precise.

Innanzitutto, un rapporto stretto con la vita privata della regista: entrambi i genitori docenti di filosofia e una vicenda familiare molto travagliata. La famiglia “contemporanea”, in tutte le sue sfaccettature e con i suoi tratti di “espansione” e di irriducibilità, è un altro snodo importante del film, rappresentata soprattutto nella sua continua fluidità e problematicità: un nucleo sempre pronto a esplodere, così come i micro drammi familiari che la Hansen-Løve ha dimostrato di aver voluto mettere al centro del suo percorso registico (si richiamano ad es. la figura della prima madre della protagonista, interpretata da Nicole Garcia, assuefatta dal suo ruolo di madre “attivista” e completamente a suo agio nel lasciare che l’ex marito ami una donna di un’altra nazionalità, rappresentazione inoltre di un certo tipo di possibile satira politica).

La moltiplicazione delle tematiche portanti però è continua: il film sembra in effetti un enorme atto d’amore al cinema francese della Nouvelle Vague (come altri lavori della stessa regista come Un amore di gioventù del 2011): c’è Godard (la protagonista sembra a volte, al limite della copia carbone in movenze, abiti e recitazione, richiamare la Jean Seberg di Fino all’ultimo respiro); c’è il montaggio peculiare di Due o tre cose che so di lei, con suoni e inquadrature che si rincorrono senza apparente funzione narrativa ma solo significante), ci sono Truffaut, Rivette e Rohmer (per il saper raccontare i drammi familiari e sociali senza peli sulla lingua, tenendosi stretti ad una sceneggiatura minimale ma densa di accezioni), ci sono i corpi (nudi e sensuali) di Resnais di Hiroshima mon amour e soprattutto c’è il continuo girovagare nelle strade (e città) francesi, a volte sfiorando il documentarismo.

La capacità della Hansen-Løve di raccontare il legame che gli esseri umani hanno con la memoria e le conseguenze che quest’ultima porta ai rapporti interpersonali è sviscerata attraverso un uso delle inquadrature delicato e al tempo stesso intelligente, senza mai puntare al lirismo, ma spingendo sulla capacità che hanno i suoi tre attori principali: i già citati Seydoux e Poupaud (che sia fantasma di Olivier Assayas?) e soprattutto il rohmeriano Greggory.

La sua interpretazione magistrale, insieme a quella della protagonista, va a formare una sorta di cerchio perfetto: il film infatti inizia con il loro incontro e termina con il loro saluto (addio) verso una nuova famiglia, verso la costruzione di una “nuova” memoria. Il ruolo non è di semplice padre, ma di fautore di un'ulteriore racconto linguistico e non visivo, a rafforzare questo elemento in tutta la produzione della regista francese: lui non vede più e ogni sua risposta ogni volta è come una sorta di “nuovo in(d)izio”, di continuo “riaprire gli occhi”. Il suo “non vedere” permette di guardare oltre, sondare i ricordi, plasmare la realtà a suo piacimento. Veggente? Quello che vede è (solo) il passato o è (già) il futuro? Spettatore? Regista? Il suo narrare spesso richiama la costruzione di un film, quando la sua volontà di spegnersi (e quindi passare all’eutanasia) viene etichettata come un “cortometraggio di dieci minuti”.

La questione della rappresentazione nel contesto sociale, richiamando i noti studi del sociologo Irving Goffman, sono perfettamente incastrati nel racconto meta-testuale del film, componente molto cara a Godard e a un certo cinema di Truffaut: si pensi alla “messa in scena” teatrale che i familiari imbastiscono per l’arrivo di Babbo Natale e la reazione della stessa protagonista che uscendo da una sala cinematografica con la figlia (anche lei interessante personaggio, sorta di filo rosso invisibile) dopo aver visto Frozen, commenta la visione come “troppo violenta”.

Violenza che non esiste nel film della Hansen-Løve e che sembra proiettato continuamente in qualcosa che deve accadere, una sorta di lentissimo crescendo, ma senza portare ad alcunché, spingendo però a realizzare un percorso metaforico sullo scorrere inesorabile del Tempo: non a caso nei primissimi minuti del film le due giovani protagoniste (madre e figlia) visitano la bisnonna, ancora in pienissima forma, quasi più vispa degli altri membri della famiglia.

Famiglia, infine, composta da donne che fanno valere le proprie idee e le proprie scelte, in confronto a uomini che appaiono deboli, persi, trascinati dagli eventi e incapaci di prendere decisioni  (in tal caso la figura del “presunto” fidanzato è perfetta: lascia due volte la protagonista, per poi ritornare da lei – forse - definitivamente) pronti a scoppiare in lacrime e abbandonarsi alle emozioni (emblematico qui il comportamento delle altre protagonista femminili e di quella principale: non piangono mai e se lo fanno tendono a farlo di nascosto).

La donna loviana è una donna forte ma allo stesso tempo debole, che si chiude in vestiti sciatti e scuri durante la solitudine, ma che si (s)veste di colori e bianchi appena imperversa l’amore e la passione. Un bel mattino dunque non è solo una semplice ricognizione sullo stile di una regista ormai consapevole dei propri mezzi espressivi e narrativi, ma un lavoro di profonda intelligenza, a metà tra il classico e lo sperimentale, enfatizzato da una scelta musicale in cui gli snodi narrativi sono puntellati dalle note di natura medievale.

Proprio quello che deve fare le Memoria: lavorare sui resti del passato (bui o luminosi che siano) per costruire un futuro difficilmente programmabile.