Con più di 200 titoli fra lungometraggi e cortometraggi pervenuti dagli archivi internazionali per l’autunnale full immersion riservata a studiosi e appassionati da ogni parte del mondo non c’è dubbio che le ormai mitologiche Giornate del Cinema Muto di Pordenone, giunte alle 43a edizione e dirette da Jay Weissberg, godano di ottima salute e costituiscano una esperienza cinefila unica nel suo genere.

Girl Shy (Le donne… che terrore) del 1924 con Harold Lloyd è stato il film scelto per il consueto evento che anticipa l’inaugurazione ufficiale del festival con l’accompagnamento della nuova partitura di Daan van den Hurk. Sembra che il critico del New York Sun (26.04.1924) descrisse la pellicola “un vero e proprio to­nico per ogni tipo di tristezza e depressione”. Il film, che narra la storia di un giovane impacciato che vive in una piccola città del Nebraska e lavora come sarto nel negozio di suo zio e delle sue avventure rocambolesche per conquistare l’amata, fu celebrato dalla stampa specializzata coeva come una delle migliori prove di Lloyd, che all’epoca divenne una delle maschere comiche più famose del cinema insieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, con una lunga carriera che culminerà con la consacrazione del premio Oscar nel 1953.

A due classici del western, entrambi del 1926, diretti da due maestri sono affidati gli eventi speciali di apertura e chiusura: 3 Bad Men (I tre birbanti) di John Ford, storia di redenzione dei tre fuorilegge, un nitido esempio di western delle origini, con una fotografia che La Rivista Cinematografica non esitava a definire “superiore ad ogni elogio” e The Winning of Barbara Worth (Sabbie ardenti) di Henry King, che fu celebrato dai critici per i rivoluzionari effetti visivi creati con modelli in miniatura dal geniale Ned Mann.

Il terzo evento speciale è La Sultane de l’amour (1919), il primo film a colori del cinema francese diretto da Charles Burguet e René Le Somptier, una fantasia orientalista poco edificante nella trama (un sultano tirannico rapisce una bella principessa) ma spettacolare per il pittorialismo delle scene poiché le sue oltre 100.000 immagini furono vividamente colorate a mano, con la tecnica au pochoir, una impresa a dir poco titanica durata -secondo le fonti- più quattro anni.

Nell’ambito delle varie sezioni del ricchissimo programma proposto è tuttavia interessante sviluppare un focus sui contributi e le rappresentazioni femminili nel cinema muto, dalle dive e star alle coprotagoniste minori. Per celebrare il centenario dalla morte di Giacomo Puccini il festival ha selezionato la versione cinematografica de La Bohème realizzata da King Vidor nel 1926, con Lillian Gish, famosa attrice americana dell’epoca, nel ruolo della sfortunata protagonista.

Gish, divenuta la nuova star della MGM, godeva di grandi poteri decisionali dall’alto della sua celebrità consolidatasi come musa di Griffith. Per il film, che fu un successo di critica e botteghino (anche grazie alla sua interpretazione melodrammatica) l’attrice impose la scelta del regista e anche del direttore della fotografia, rifiutando persino i costumi creati per lei da Erté decisa a crearli in autonomia con l’aiuto della sarta.

Il tributo al grande compositore italiano incrocia la retrospettiva dedicata all’attività di scenografo di Ben Carrè che sebbene in questo film non sia accreditato esplicitamente, come spesso accadeva in quel periodo, realizzò le suggestive scenografie della Parigi notturna che facevano da sfondo al travagliato amore di Mimì e Rodolfo (quest’ultimo interpretato da John Gilbert, scelto dalla stessa Gish).

Dei 5 lungometraggi e 12 cortometraggi proiettati al festival per l’omaggio al lavoro di Carrè, è imperdibile la visione di La Course aux Potirons (1908) di Roméo Bosetti, un piccolo gioiello di comicità nonché splendido esempio della maestria e genialità del grande scenografo che sfrutta i trucchi del cinema delle origini nel dar vita alla folle rincorsa ad un gruppo di zucche animate per le strade della città.

Alla Nazimova, attrice russa naturalizzata statunitense, è invece la protagonista nel ruolo di una danzatrice indiana di Stronger than Death (1920) di Herbert Blaché, una produzione sfarzosa con scene e ambientazioni sontuose. Sebbene la periodica reinvenzione dell'immagine sembri ora di rigore per le star di Hollywood, non è sempre stato sempre così; parte dell'eredità di Nazimova deriva dall’esser stata tra le prime a esercitare il controllo sulla propria immagine di celebrità.

Con pochissime eccezioni, il percorso della carriera cinematografica di Nazimova è descritto in base a reinvenzioni abili e tempestive della sua persona pubblica e a una volitività definita in modo netto, tanto da poter contare anche su una propria casa di produzione che l’attrice aveva fondato col marito, Charles Bryant. La lavorazione di Stronger Than Death fu un’esperienza che lo scenografo Ben Carré ricordava con molto piacere per l’armonia che si era creata sul set, e il suo lavoro fu molto elogiato dalla critica.

La sezione Canone rivisitato, a cura di Paolo Cherchi Usai propone, tra gli altri,  l’atmosferico Rapsodia Satanica (1917) il capolavoro di Nino Oxilia restaurato dalla Cineteca di Bologna, con una partitura alternativa all’originale di Pietro Mascagni e la massima diva italiana dell'epoca, Lyda Borelli nel ruolo della protagonista, l’anziana dama Alba d’Oltrevita che ritrova la sua seducente giovinezza grazie a un patto nefasto, una variazione della vicenda faustiana, di ispirazione dannunziana ed estetica liberty. Drammatica, mitizzata, iper-sensualizzata e avvolta in un emozionante senso di pericolo la Borelli incarna la forza straripante della femme-fatale che catalizza la scena e rende schiavi gli uomini ma è fatale prima di tutto a se stessa, pagando con la vita la sua scelta.

Saxophon-Susi (1928) all’interno della sezione Ritrovati e Restaurati è una deliziosa commedia tedesca con Anny Ondra all'apice della carriera (l’anno seguente sarebbe stata la protagonista di The Manxman di Hitchcock); l’attrice di origine ceca nel film è diretta dal marito Carl Lamac, con il quale ebbe grande margine d’azione fondando una propria casa di produzione. Il personaggio di Susi sfida apertamente le norme sociali del tempo, ed è un affascinante parabola di emancipazione femminile mentre si scambia di ruolo con l’amica per rincorrere il sogno di diventare ballerina, rinunciando momentaneamente alla sua posizione sociale privilegiata.

L’interpretazione di Ondra in questo film, tutta occhi da cerbiatto, è semplicemente strepitosa e tocca il culmine in uno stravagante numero di ballo eccentrico mentre suona il sassofono. Il film, supportato da una troupe internazionale, fu girato in tre diverse capitali europee, Berlino, Parigi e Londra. In occasione della prima di Berlino il film fu accompagnato dal vivo da una partitura originale del compositore Paul Dessau, ora perduta, e integrata da una canzone all'epoca molto popolare, un fox-trot jazzato dal titolo “Susi suona il sassofono”. Anny Ondra riuscì a traghettarsi con successo nel periodo del sonoro, continuando una carriera internazionale di tutto rispetto.

Nel 2022 il volto di Anna May Wong, prima star hollywoodiana sino-americana nota soprattutto per la sua interpretazione al fianco di Marlene Dietrich in Shanghai Express (1932), è apparso sul retro della moneta da 25 centesimi del dollaro americano e nel 2023 la Mattel ha lanciato la Barbie col suo nome nell’ambito del progetto “Inspiring Woman”.

Anche le Giornate del Cinema muto le rendono omaggio con la presentazione del libro To Be an Actress: Labor and Performance in Anna May Wong’s Cross-Media World, (2024) di Yman Yang e una retrospettiva di ben quattro film, due americani e due girati in Europa dove il talento dell’attrice trovò un terreno più fertile che negli Stati Uniti. Celebre icona relegata ai margini per gran parte della sua carriera, l’attrice riuscì ad imporsi grazie al talento performativo unico nel suo genere e all’intraprendenza con cui seppe contrastare lo sguardo orientalista. Anche nei casi in cui fu relegata a interpretare stereotipati ruoli da mero ornamento asiatico o da Dragon Lady di cui è il prototipo, cercò di sfidare le limitazioni imposte dal sistema hollywoodiano per sovvertire le dinamiche del colonialismo e del nazionalismo patriarcale.

Dinty (1920) di Marshall Neilan è una storia che parla di assimilazione ma anche di  razzismo nell’America bianca con protagonista un eroico ragazzino irlandese che sbarca faticosamente il lunario facendo lo stril­lone e riesce a salvare Ruth, la figlia del giudice Whitely, da una banda di trafficanti d’oppio a Chinatown, col sodalizio di un ragazzo cinese, soprannominato “Chinkie,” e un ragazzo nero soprannomi­nato “Watermelons”. Unica donna cinese nel dramma, Wong appena quindicenne interpreta il ruolo di Half Moon, non accreditato; ben presto sarà descritta dal Chicago Daily Tribune come la “snella figlia dell’Oriente dagli occhi a mandorla”, che poteva contare su lauti guadagni e divenne ricercatissima a Hollywood.

La seconda produzione americana proposta è Driven from Home (1927) un melodramma infarcito di stereotipi razziali che narra dell’amore tra Mary, figlia di genitori new rich ansiosi di maritarla ad un nobile decaduto e Henry Elliot, un giovane privo di risorse. Mary accetta il lavoro nel ristorante cinese, sede di malaffare, gestito da Ah Sing e dalla moglie Cho-Sang interpretato da una intensa Wong in preda a gelosie e sete di vendetta.

Rivolgersi al pubblico multinazionale che la seguiva, l’attrice firmava ironicamente le proprie foto con le parole “Orientalmente tua” e per tutta la sua vita, la sua cittadinanza americana venne sottoposta a controllo: prima di ogni viaggio all’estero, do­veva infatti incredibilmente presentare una “Domanda di presunto cittadino americano di razza cinese per un’indagine preliminare del suo status”, secondo quanto previsto dalla normativa americana sull’immigrazione.

Song (1929) è il primo film da protagonista di Anna May Wong in Germania, dopo aver lasciato Hollywood. Il film, che univa risorse europee per realizzare coproduzioni di vasto richiamo, concepite per resistere all’egemonia hollywoodiana, era diretto da Richard Eichberg e sceneggiato da Karl Vollmöller (successivamente autore della sceneggiatura de L’angelo azzurro. Anna May Wong nel ruolo di Song, “una dei naufraghi del fato” è tratta in salvo da John Houben un lanciatore di coltelli in un music-hall, che l’assume per i suoi numeri come bersaglio umano. Come tutti i melodrammi che si rispettano il rapporto sado-masochistico tra i due protagonisti non avrà lieto fine e al termine della storia Song si spegne “meravigliosamente”, inquadrata in un close up, cinta da un alone di luce e gli occhi lucci­canti di lacrime.

Ultimo film proposto dalla retrospettiva è Großstadtschmetterling (1930) in cui l’attrice interpreta la ballerina Mah, ispirata al personaggio di Madame Butterfly, che si innamora di Kusmin, pittore russo in miseria. La storia d’amore s’infrange e alla fine Mah, inquadrata in primissimo piano, sul punto di piangere, volge lo sguardo verso Kusmin fuori campo: con una commovente ripresa in campo lungo di Mah si allontana nel suo abito da sera , da sola, per scomparire nel buio, abbandonando l’amato e autodeterminando per la prima volta il proprio destino.