Si è concluso a Bologna Archivio Aperto 2024, festival figlio dell’instancabile lavoro di Home Movies, Archivio Nazionale del Film di Famiglia che si occupa di preservare e valorizzare il patrimonio filmico privato e amatoriale. Cinque giornate di proiezioni, incontri, workshop e sonorizzazioni per ragionare sulle implicazioni estetiche, etiche e politiche del riutilizzo filmico di materiale d’archivio pubblico e privato. Emerge tutta la complessità di quel lavoro di scavo operato dalle immagini del passato: la realtà stratificata che riposa negli archivi va dispiegata e portata alla luce perché la memoria del passato è il disegno del futuro.
Occorre allora prima di tutto ricordare, ed è proprio alla memoria che il festival dedica la sua diciassettesima edizione ‘‘The art of memory’’ omaggiando Goliarda Sapienza nell’anno del suo centenario. La memoria è come la gioia di Sapienza un’arte che si apprende e che va praticata, un esercizio di archeologia del sé mai fine a se stesso.
Dalla memoria privata a quella storica, dal tempo individuale a quello collettivo, l’arte della memoria è la pratica quotidiana del ricordo ma anche la volontà attiva di sollecitare un passato assopito ancora capace di parlare al nostro presente. Come il cinema stesso, l’arte del ricordo è quella di rievocare le assenze, e tali assenze vanno interrogate, studiate e conservate: nello spirito del lavoro di Home Movies, quello che viene restituito nelle pratiche artistiche e curatoriali di Archivio Aperto è anche un cinema non narrativo, empatico, che risuona.
Nel potere toccante delle emozioni – ampiamente analizzato da Giuliana Bruno nel suo Atlante – l’immagine cinematografica diventa interlocutore, l’immagine privata esperienza collettiva. La sonorizzazione del duo Bono/Burattini ha operato in questo senso, dando voce a una selezione di filmati di famiglia provenienti dall’archivio di Home Movies dedicati al movimento: balli, tuffi e capriole per cogliere la vitalità del corpo, cuore pulsante della letteratura di Sapienza.
Nel concorso, 16 opere hanno portato sullo schermo documentari originali capaci di unire conoscenza archeologica, ricerca e sguardo contemporaneo. Silence of Reason di Kumjana Novakova ha ottenuto il premio di Miglior film con la sua ricostruzione documentaria dolorosa dei campi di stupro di Foca.
La memoria mancante qui non è solo quella dei crimini di guerra che spesso rimangono nel silenzio ma soprattutto quella causata dal trauma delle vittime, il cui esercizio del ricordo diventa straziante ma necessario. Triton di Ana Lungu premiato per Miglior utilizzo di materiali d’archivio privati intreccia micro e macro storia in un ritratto della Romania fornito da tre archivi privati che catturano la vita quotidiana romena tra la seconda guerra mondiale e la dittatura di Ceausescu. Tra gli anni 60 e 80 in Romania era difficile possedere una cinepresa e il recupero di questo materiale diventa occasione di riflettere sulla costruzione della memoria personale in un contesto repressivo, portando alla luce la realtà interiore di luoghi inaccessibili.
Il cinema di montaggio che lavora con «i resti» si confronta con la necessità di una riflessione costante rispetto alla materia e alla forma che sceglie di rendere visibile, con tutta la portata politica che questa operazione comporta. Le ‘‘reliquie mediali’’ dell’archivio, lungi dall’essere neutre, aprono il campo a pratiche audiovisive che mettono in atto un riposizionamento semantico delle immagini, un terreno fertile di sperimentazione per molto cinema contemporaneo soprattutto documentario, in un’ottica storiografica ma anche di ecologia dell’immagine.
Il doppio binario su cui si muove l’archivio, del tempo da un lato, del potere dall’altro – etimologicamente riconducibile all’ἀρχή greco, il principio e l’origine, ‘‘archivio’’ è anche il luogo in cui si conserva la legge (ἀρχεῖον) – diventa lo spunto per chiedersi a chi appartengono determinate immagini, cosa comporta la loro visibilità e invisibilità. Una dialettica di memoria, oblio e potere ben esemplificata da A Fidai Film, di Kamal Aljafari (Menzione Speciale per la Giuria Giovani) che ha lavorato sulla riappropriazione di immagini di repertorio mettendo in atto un "sabotaggio dell’archivio".
Nel 1982 l’esercito israeliano invase Beirut e sequestrò un intero archivio contenente documenti storici sulla Palestina, privando il popolo palestinese di un fondamentale riferimento identitario. Il documentario sperimentale di Aljafari recupera la memoria sottratta e cerca di restituirne una parte ai legittimi proprietari, consapevole della capacità del dispositivo-archivio di incidere e modificare l’immaginario di un popolo e deciderne la sua stessa esistenza.
L’archivio non è un tempo cristallizzato ma un tempo nuovo a ogni sua rievocazione. La possibilità di investire di sguardo nuovo ciò che appartiene al passato rivela non solo una pratica creativa stimolante ma un gesto necessario in un panorama saturo di immagini dove il confine tra verità e falsità diventa sempre più labile e il bisogno di orientarsi sempre più urgente. L’archivio è un materiale da risvegliare, solo apparentemente statico esso vive nel presente.