Non può che essere innocente Cary Grant: e infatti in The Talk of the Town (in italiano Un evaso ha bussato alla porta) dopo un iniziale montaggio riassuntivo dove viene presentato come un criminale accusato di avere incendiato una fabbrica, l’attore forse più amato della Hollywood classica viene subito inquadrato come un martire, vittima di un pregiudizio. Come nel noir il protagonista finisce in un affare molto più grande di lui: è vittima di un complotto organizzato dalle più alte sfere della politica cittadina, perorato da una “folla assetata di sangue” che lo vuole vedere morto piuttosto che in prigione. Solo la sua amica Nora (una vulcanica Jean Arthur) e l’avvocato Sam Yates sono sicuri della sua innocenza.
Nascostosi nella soffitta di Nora, Leopold Dilg (questo è il nome del suo personaggio) capita però nel posto peggiore e insieme migliore dove potesse andare: la casa di Nora è infatti appena stata affittata dal professore di giurisprudenza Michael Lightcap (Ronald Colman), un uomo tutta teoria che evita di immischiarsi con la realtà sociale (e quindi con l’aspetto vitale e quotidiano della legge) ma che in un turbinio sorprendente di situazioni comiche, drammatiche e da puro cinema sociale diventerà il suo più prezioso alleato.
Se in A Place in The Sun e in Something to Live For l’assonanza del melodramma secco e tagliente di George Stevens con il dramma del periodo americano di Fritz Lang si vede soprattutto nei toni e nella umanità straziata (e straziante) dei personaggi, con The Talk of the Town la similitudine tra i due registi si fa paradossalmente lampante. Sebbene quella di Stevens sia in tutto e per tutto una commedia, tra ritmi sfrenati al limite della screwball e una pista indiziaria esilarante fatta di uova ed estetiste di mezza età, George Stevens ha la stessa serietà di Lang quando quest’ultimo affermava in Sono innocente che la folla, il popolo (e quindi lo sprito reale, più che reale della legge e della società) è la rovina o la salvezza dell’individuo.
“Tutti qui sono responsabili per tutto quello che succede”, dice un personaggio a un certo punto in The Talk of The Town. Niente di più vero e di più intrinsecamente americano. Cary Grant non è sfortunato quanto il personaggio di Henry Fonda, né tragicamente eroico quanto l’altra vittima del complotto popolare che era Spencer Tracy in Furia: ad ogni modo George Stevens riesce ad incastrare tra una gag e un’altra una riflessione sulla responsabilità sociale con una sicurezza (senza però risultare assertivo) che non ha niente da invidiare ai generi più “gravi”.
Tra l’imbalsamato professor Lightcap e il disgraziato ma sempre sorridente Leopold Dilg si instaura un rapporto che, oltre che umano e affettivo, è insieme pratico e teorico: il primo ha gli strumenti ma non ha l’esperienza umana né il coraggio di “fare giustizia”, il secondo ha tutta l’esperienza del brutto, del meschino e del degradante dei suoi concittadini ma non è nella posizione per poter parlare per sé. Due visioni antitetiche della legge sono in ballo. Si tratta o dell’osservanza rigorosa del codice legislativo, da seguire ciecamente, o della lettura del codice attraverso il contesto, attraverso la valutazione delle circostanze. La soluzione non potrà che conciliare entrambe le cose.
George Stevens raccoglie tutto ciò con la naturalezza e l’apparente semplicità che solo la Hollywood classica sa regalare, in un cinema dove oltre la superficie e oltre la risata risiede una profondità di pensiero spiazzante. Stevens non era un radicale ma era estremamente patriottico nel senso migliore del termine: convinto che lo spirito degli Stati Uniti e che il sogno a stelle e strisce risiedesse in primis nella buona volontà delle persone. Una volontà che non è innata ma che può e deve essere costruita nonostante tutto. In The Talk of the Town c’è tutto questo, e sebbene il triangolo amoroso sembri rubare la scena, come un po’ vuole la regola, è certamente l’aspetto socio-politico ciò che davvero rimane.