È un periodo fertile per il cinema italiano. Vale senz’altro per le grandi produzioni da mondo patinato hollywoodiano: Sorrentino, Garrone, Rohrwacher, per citare alcune perle dei nostri giorni. Nondimeno, nell’abbondanza di titoli, tra l’offerta generosa delle piattaforme streaming e della sala cinematografica, trovano spazio piccole opere di autentica bellezza. Piccole, per la distribuzione a loro riservata, tuttavia importanti, per la qualità dei loro contenuti. Tra queste si difende egregiamente anche Un giorno all’improvviso, scritto e diretto da Ciro D’Emilio, in concorso, nella sezione Orizzonti, all’ultima Mostra di Venezia.
La storia – e i temi affrontati - potrebbero risultare triti e ritriti: il rapporto madre-figlio, per esempio. Eppure l’autore ha uno sguardo genuino e deciso, sa dove ci vuole portare e come farlo, in un dramma raffinato e mai pretenzioso. Ci troviamo così in un paesino campano in cui vivono Miriam e Antonio, madre e figlio. Lei (Anna Foglietta) è una donna amorevole affetta da una psicosi difficile da gestire, lui (Giampiero De Concilio) un ragazzo che sogna di diventare un calciatore professionista. Il padre, spietato e prevaricatore, ha abbandonato entrambi. Antonio ama profondamente la madre e se ne prende cura; non va a scuola: la mattina coltiva, assieme a Miriam, il loro terreno ricco di limoni, unico spazio di riconciliazione familiare. Durante il giorno si barcamena tra il lavoro in un benzinaio e gli allenamenti con la squadra. Antonio è un ragazzo che ha dimenticato di avere diciassette anni, cresciuto, forzosamente, troppo in fretta. Da queste premesse si delinea un quadro delicato, in cui il rapporto di co-dipendenza tra madre e figlio si fa via via più greve e limitante. L’unica speranza di salvezza è l’arrivo di un mentore, il talent scout del Parma che fa sognare ad Antonio la fuga, assieme alla madre, da una situazione stagnante e dannosa. Il ragazzo scoprirà, a sue spese, di non poter salvare la madre – e neanche se stesso - dalla malattia. E che, forse, l’unica via di fuga è insita nella peggior risoluzione che ci si possa augurare.
Questa è l’opera prima di un giovane regista che si trova a dover gestire una storia dalle tematiche importanti e difficili. Va da sé che di tanto in tanto inciampi. Ciò detto, l’esito si può considerare più che convincente per eleganza, autenticità e unicità. D’Emilio fa abile uso di alcuni stilemi in voga nel cinema d’oggi che, effettivamente, risultano efficaci. Basti pensare all’uso del dialetto napoletano. La tradizione inaugurata da Gomorra ora viene adoperata per garantire un’efficacia comunicativa maggiore. I personaggi risultano credibili e autentici grazie al linguaggio duro e ostico che, per inciso, avrebbe meritato una sottotitolazione. A proposito dei personaggi: si rivelano, al tempo stesso, punto di forza e debolezza della sceneggiatura. È attraverso loro e grazie all’intensità delle interpretazioni che la storia prende forma. Molto è dovuto ad Anna Foglietta, unica attrice del cast già affermata, che riesce ad incarnare la fisicità di una donna provata dalla vita ma ancora vitale, bella, tra sbalzi d’umore repentini, attacchi d’ira improvvisi e momenti di pura gioia. Ed anche il giovane Giampiero De Concilio, qui alla sua prima performance, è toccante. Tuttavia, i soggetti che gravitano attorno ai protagonisti sembrano esistere solo in loro funzione, appiattiti sullo sfondo, accennati e mai approfonditi. Poco male, lo spessore emotivo dei due personaggi principali è il motore della narrazione e non fa sentire la mancanza di ulteriori livelli di complessità.
Trattare la malattia mentale non è operazione semplice e unirla al ruolo genitoriale complica ulteriormente le cose. Il cineasta lo fa con garbo, il suo sguardo è imparziale, grazie anche alla messa in scena essenziale che lascia libero spazio a madre e figlio, senza interventi di sorta. Si limita a seguire il decorso del loro rapporto senza strizzare l’occhiolino allo spettatore con trovate buoniste per lacrime facili. D’Emilio va oltre la maternità, oltre la malattia. Invita a riflettere sulle difficoltà del divenire e dell’essere adulti, con dolore ma instancabile tenacia. Lo fa riuscendo ad evitare gli stereotipi, altra pregevole capacità dei nuovi autori del piccolo cinema italiano che non smette di proporci talenti meritevoli di attenzione.