“Io non ho paura di essere povera”, dice la promessa sposa dell’arrivista George Eastman (Montgomery Clift) mentre i due si trovano su una barca in mezzo ad un lago deserto, buio e inospitale. Questa affermazione è per George come una coltellata perché è tutto ciò che invece lui teme più profondamente: più della morte stessa. George Stevens sa che questo è il momento più importante di A Place in The Sun (in italiano Un posto al sole) e nella personale riproposizione del romanzo di Theodore Dreiser (Una tragedia americana del 1925, su cui aveva messo gli occhi dalla pubblicazione) filma quel momento guardando per la prima volta da vicino la disgraziata Alice Tripp (Shelley Winters).

L’effetto è di una potenza incredibile. La figura di Alice, Stevens l’aveva sempre inquadrata da lontano, quasi fosse un manichino, a tratti disumanizzata. Nemmeno nei momenti teoricamente amorosi aveva osato avvicinarvisi, e anzi, nella scena del primo bacio i due “non-amanti” si intravedono dal buio, sono due silhouettes che si confondono con il resto. Ma ora, su questa barca, il suo viso diventa enorme, storpiato da una smorfia di dolore mentre implora George di stare con lei. Qualcosa di gigantesco e quasi orrorifico. La perfezione del cinema.

Dopo 19 mesi di montaggio e sette preview, George Stevens presentò finalmente il suo capolavoro A Place in The Sun nel 1951 e fece incetta di ben sei statuette ai premi Oscar. Ma se è vero che i premi sono figli del loro tempo ed è solo la prova della Storia ciò che realmente conta, si può certamente dire che A Place in The Sun è riuscito dopo esattamente settant’anni a rimanere un film indimenticabile. E probabilmente lo sarà ancora a lungo. L’eternità George Stevens se l’è guadagnata in tanti modi, ma in questa storia di proletari che aspirano alla società alto-borghese, fallendo, e di alto-borghesi che provano a scendere dal piedistallo ma che rimangono alieni e inarrivabili (anche nell’aspetto sembrano creature “altre” talmente sono privi di emozionalità), Stevens è riuscito a infondere in una una tragedia tetra e straziante una delicatezza e un’umanità irripetibile.

Tra immoralità (oltre il cinema) e mortalità (del presente filmico). In A Place in The Sun George Stevens filma ogni singola scena come se fosse l’ultima, la più magnifica, la più necessaria. L’angoscia dei personaggi, di Montgomery Clift e dell’amata  - sì divina e maestosa - Elizabeth Taylor, che interpreta la borghese Angela Vickers di cui George si invaghisce disperatamente (rischiando tutto), non è però l’angoscia del regista. Stevens ha le idee chiare fin dalla primissima scena e in un gioco di dettagli indiziari annuncia passo passo “ciò che sarà”: un cartellone pubblicitario, poi una riproposizione del dipinto “Ophelia” di John Everett Millais appeso discretamente nel soggiorno, uno scorcio sull’aula di tribunale vuota. George Stevens non ha paura di contemplare ma calcola i movimenti di macchina e le sue sineddotiche dissolvenze incrociate al millimetro, con la mano sicura di chi sa esattamente come trasmettere a chi guarda la stessa tortuosa avventura emotiva dei personaggi.

A Place in The Sun è un lungo addio, quello che si dicono continuamente Montgomery Clift ed Elizabeth Taylor e che sarà il riassunto di un destino tragico. Solo il presente è eterno, e i due si aggrappano disperatamente all’attimo nel tentativo di conservarlo: in quel bacio sulla terrazza, al chiaro di luna, c’è tutto questo. George Stevens si avvicina talmente tanto agli amanti tramite una lente da sei pollici che sembra di respirare con loro. L’effetto è glorioso e struggente, romantico e disperato. Appunto, indimenticabile.