La prolifica filmografia di Jack Lemmon è a suo modo un grande romanzo americano, una galleria coesa ed estrosa di uomini ordinari non banali, imbrigliati nell’inganno delle convenzioni, nel perbenismo di massa, nell’ansiogeno capitalismo su scala umana a stelle e strisce: una parabola dolceamara di solitudine individuale, alienazione urbana, riscatto morale dei vinti, spregiudicata rivolta alla disperazione, che si snoda in quasi mezzo secolo di cinema e di “lavoro” (questa l’accezione che Lemmon dava alla sua arte, per cui si imponeva una preparazione disciplinata per ogni personaggio).

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di un attore d’eccezione su tutti i lati prismatici della recitazione, dalla versatilità delle performance alla ricezione calorosa del pubblico, dal valore intrinseco delle opere girate ai più prestigiosi riconoscimenti, dagli Academy Awards (due statuette) a Cannes, Venezia, Berlino.

Su una bibliografia di studi non troppo fiorente neppure negli Stati Uniti e su una celebrità che non varca il perimetro dell’affettuosa memoria condivisa per sconfinare in mitografie, grava un passato misconosciuto, una vita privata senza clamori e pose divistiche, l’effigie inscalfibile di “americano medio”, il prototipo con cui lo designò I. A. L. Diamond, fidato sceneggiatore di Billy Wilder.

Eppure, proprio in una giovinezza e in un apprendistato non facili è lecito leggere le future tracce recitative di una malinconia plastica e leggiadra insieme, che è sfasamento esistenziale nel quotidiano, cittadinanza di alterità nel mondo, fulgida vulnerabilità nella sventura più buffa o struggente, introversa cognizione del dolore che non scade mai nel vittimismo. 

Nato l’8 febbraio 1925 e scomparso nel 2001, prima dell’esordio al cinema nel 1954 con George Cukor (La ragazza del secolo), prima dell’Oscar da non protagonista con La nave matta di Mister Roberts di John Ford e Mervyn LeRoy, John Uhler Lemmon III vive una salute cagionevole con ricoveri ospedalieri, la separazione dei genitori, i forzati studi universitari, l’arruolamento in marina durante la seconda guerra mondiale, l’ingombrante influenza paterna, una madre eccentrica, l’arrancante gavetta a New York.

Poi l’approdo promettente tra teatro, radio, televisione, la consacrazione a Hollywood, con il compimento della profezia di Cukor (“lei diventerà una star”) che sul set spogliò Lemmon di ogni retaggio del palcoscenico: è l’iniziazione a un mimetismo esuberante che sottrae sul volto il grottesco, manovrando al millimetro l’istrionismo, come in una partitura musicale interiore (Lemmon fu anche un dotato pianista autodidatta).

Lo sguardo rassicurante e brioso, i lineamenti morbidi, il fisico di duttile sobrietà assicurano l’esplorazione del catalogo del personaggio di strada in tutte le varianti e sfumature, sia nel dramma che nella commedia (riduttiva tuttavia l’etichetta di “comico”, nonostante i successi nel genere), distillando in entrambe il registro opposto, sotto l’egida di maestri e cineasti di navigato mestiere che hanno sviscerato in citizen Lemmon la dolcezza del vivere, le nevrosi, le ipocrisie degli anni Cinquanta e Sessanta, l’impegno di denuncia e lo sconforto politico in tinte più fosche e corrosive e in ruoli meno concilianti nei due decenni successivi (Salvate la tigre, Prima pagina, Sindrome cinese, Missing), fino agli epiloghi in sentore di epitaffio degli anni Novanta, in cast e messinscene corali che radiografano spietatamente la nazione (JFK di Oliver Stone, Americani, America oggi di Robert Altman).

Se sotto la direzione di Richard Quine l’interprete ne asseconda l’ironia garbata ed effervescente in toni burleschi e surreali al fianco di partner femminili di cui si accentua l’intraprendenza (Mia sorella Evelina con Janet Leigh, Una strega in paradiso con Kim Novak, Attenti alle vedove con Doris Day), nel più celebrato sodalizio con Billy Wilder la forma dell’attore si incorpora nei lucidi e graffianti affondi del regista austriaco che elegge Lemmon a epitome farsesca e travestita dei cliché sessuali capovolti (A qualcuno piace caldo, Irma la dolce), lo trasfigura, tra timidezza e arrivismo, da arrendevole antieroe della modernità occidentale a "Mensch" (L’appartamento), ne staglia la dignità offesa e ritrovata in contrappunto con Walter Matthau (la strana coppia per antonomasia) in Non per soldi…ma per denaro. Nello sfrigolio al fosforo della caduta del sogno americano, in un miracoloso equilibrio tra mestizia e umorismo dove regia e performance concorrono in sinergia e in egual talento per la caratterizzazione di capolavori.

Quasi co-autore nella deviazione verso il dramma lirico e dolente del maestro della commedia sofisticata Blake Edwards (I giorni del vino e delle rose), Jack Lemmon è stato il discreto demiurgo di storie e ritratti di un nuovo umanesimo, intercettando tonfi e sopravvivenza dell’everyman nella brezza o nel vortice dell’evoluzione dei tempi, un compositore di pathos e divertimento al di qua dell’overacting, un primo piano di complice empatia anche nei ruoli più stridenti e scomodi, avulso dalle scuole e dai manierismi di tendenza tra colleghi, arroccati tra Lee Strasberg e Stella Adler.

"Nobody’s perfect", ma il contributo di Jack Lemmon al grande cinema americano lo è.