Se volessimo trovare un corrispettivo della Nouvelle Vague nel cinema italiano, esso sarebbe formato da un gruppo eterogeno di autori che – pur non essendo riconosciuto come movimento vero e proprio, a differenza di quello francese – negli anni Sessanta si sono posti in controtendenza col cinema degli anni precedenti, dando vita a film di rottura e di contestazione della società borghese e conformista, tanto nella forma quanto nel contenuto. Parliamo di giovani cineasti che in seguito sarebbero diventati registi famosi, autori all’epoca “indipendenti” (diremmo oggi) che hanno avuto il merito di svecchiare il cinema italiano: Bernardo Bertolucci (Prima della rivoluzione), Marco Bellocchio (I pugni in tasca), il primo Tinto Brass (Chi lavora è perduto), Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani, i fratelli Taviani, solo per citare i più importanti. È in tale contesto che va inserito Una bella grinta (1965) di Giuliano Montaldo, qua al suo secondo film, e divenuto nel decennio successivo uno dei più celebri e scomodi registi impegnati del cinema italiano (da L’Agnese va a morire alla trilogia contro il Potere, cioè Gott mit uns, Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno). Dimostratosi un autore in controtendenza fin dal suo controverso film d’esordio, Tiro al piccione (1961) – uno dei primi a trattare la Repubblica di Salò dalla prospettiva di un repubblichino – con Una bella grinta Montaldo prosegue la sua narrazione anticonformista di personaggi borderline, mostrando il lato oscuro del boom economico e denunciando la spietatezza del capitalismo e della società borghese.
Il film è scritto a più mani (insieme a Montaldo ci sono Armando Crispino, in seguito apprezzato regista di film di genere, Lucio Battistrada e Giuliani De Negri), ed è incentrato sulla figura di Ettore Zambrini (Renato Salvatori): un giovane industriale che, staccatosi dalla sua famiglia di contadini, è diventato proprietario di uno stabilimento tessile a Bologna. Affamato di denaro e successo, non si accontenta della sua modesta ditta, ma punta a espandersi costruendo una grande fabbrica nei pressi dell’autostrada. L’impresa si rivela però più difficile del previsto, fra debiti, scioperi e creditori che cercano di raggirarlo, facendogli rischiare il fallimento. Alle difficoltà economiche si uniscono quelle private: la moglie Luciana (Norma Benguel) vuole lasciarlo per unirsi al suo amante, un giovane studente. Con uno spietato cinismo, Zambrini riesce però a risolvere entrambi i problemi: prima si sbarazza del rivale, uccidendolo, poi si impone sui concorrenti, riuscendo ad aprire il suo nuovo stabilimento tessile.
La scelta di Renato Salvatori come protagonista non è probabilmente casuale: il rinomato attore era stato protagonista di alcuni film-simbolo degli anni Cinquanta (Poveri ma belli, I soliti ignoti), proprio quel genere di commedia brillante e nazional-popolare che Una bella grinta voleva minare alle fondamenta per portare alla luce gli aspetti più meschini della società italiana e della classe borghese. Del resto, Salvatori non era nuovo a ruoli impegnati – pensiamo a Rocco e i suoi fratelli, Un giorno da leoni, I compagni – e la “grinta” del suo personaggio (termine riferibile tanto al volto quanto al carisma) giganteggia anche nel film di Montaldo, che l’aveva già diretto nel suo episodio del film collettivo Extraconiugale. Una bella grinta, che all’epoca non ebbe un grande successo di pubblico ma fu elogiato dalla critica, vincendo anche il Premio Speciale della Giuria al Festival di Berlino, è un film cruciale nella rappresentazione del passaggio dal periodo del boom economico (fra gli anni Cinquanta e i Sessanta) alla crisi del decennio successivo, quando lo status quo della borghesia subì una forte messa in discussione.
L’opera di Montaldo arriva prima della contestazione sessantottina (“prima della rivoluzione”, per usare la citazione di Talleyrand che introduce l’omonimo film di Bertolucci), anticipando le tematiche e i tempi come solo i grandi registi sanno fare, ma se vogliamo è anche attualizzabile all’economia neo-capitalista di oggi, confermandosi come un classico che sa essere specchio del suo tempo ma anche estensibile ad altri contesti. Se Vittorio De Sica metteva alla berlina il successo economico ne Il boom, con Alberto Sordi, in un film sospeso fra il drammatico e il grottesco, Una bella grinta è un film nerissimo e disperato, anche politically uncorrect se vogliamo, che sfocia quasi nei territori del noir: è l’urlo di un borghese rampante che soffre di una specie di bulimia capitalista, ma anche la presa di coscienza degli operai, e la sofferenza di una moglie ingabbiata in un mondo che le va stretto e al quale però risulta impossibile ribellarsi.
Ettore Zambrini è un personaggio meschino e amorale, un “filibustiere” – definizione che il protagonista utilizza più volte per i suoi concorrenti, senza accorgersi di essere fatto della loro stessa pasta – in grado di compiere le azioni più ciniche per arricchirsi. La vicenda si modella su una sceneggiatura complessa, tenuta insieme da una grande regia, dove l’aspetto economico e quello privato si mescolano continuamente, alternando le sequenze dove Zambrini tesse i suoi intrighi da industriale con quelle dove pedina la moglie e il suo amante, fino all’omicidio. Il fenomeno imprenditoriale descritto è complesso, è il frutto evidente di un’indagine capillare che per lo spettatore digiuno di economia può risultare astratto, ma che nella sostanza è evidente: un uomo sommerso di debiti che continua però a sognare in grande, muovendosi con ogni mezzo fra creditori e agguerriti concorrenti per ottenere i finanziamenti – una sorta di self-made man all’italiana. Sullo sfondo, ci sono gli operai che scioperano e reclamano i loro diritti (è ancora evidente la matrice pre-sessantottina), in quella che è un po’ un’anticipazione del successivo La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri.
Una bella grinta è girato con uno stile che profuma anch’esso molto di Nouvelle Vague: il bianco e nero asciutto della fotografia di Erico Menczer, un montaggio nervoso, stacchi improvvisi, ellissi spazio-temporali fra una scena e l’altra. La macchina da presa segue costantemente Renato Salvatori (qua in un’altra grande performance), dalla sua ditta modesta al grande cantiere della nuova fabbrica, nella sua casa piccolo-borghese, oppure in auto, mentre segue la moglie e il suo amante, insinuandosi nelle loro vite senza farsi notare. C’è poi la musica di Piero Umiliani, eseguita dal complesso di Gato Barbieri, un repertorio di brani jazz quasi improvvisati e rapsodici, che tornano in modo insistito lungo tutto il film, a partire dal brano iniziale cantato da Don Powell. Lo stile utilizzato da Montaldo è diverso rispetto a quello vibrante dei suoi successivi pamphlet contro il Potere. Girato a Bologna, il nostro è un film asciutto, minimalista, quasi neorealista per certi versi: basti pensare che, a parte i due protagonisti e una breve comparsa di Marina Malfatti, la maggior parte degli attori sono improvvisati, presi poco prima delle riprese (lo apprendiamo dal libro che Alberto Crespi ha scritto su Giuliano Montaldo), ritratti talvolta mentre parlano in dialetto romagnolo.
Con Una bella grinta, Montaldo rappresenta il delirio di onnipotenza della classe borghese, ne raffigura le contraddizioni e la crisi, a cui dà vita in particolare il significativo personaggio della moglie: una donna che vorrebbe fuggire dalle convenzioni imposte dal ceto sociale, attraverso l’evasione amorosa con il giovane studente, ma che finisce col rimanerne imbrigliata, senza possibilità di uscirne, per poi accettare tutto nell’amara conclusione. Un po’ come faceva, pochi anni prima, il protagonista di Prima della rivoluzione: i tempi della ribellione non sono forse ancora maturi, ma i semi sono stati gettati.