Nell'archivio di Vittorio De Sica abbondano i documenti che testimoniano l'impatto politico sociale e culturale prodotto dall'uscita di Ladri di biciclette (1948). Critici di ogni nazionalità riportarono recensioni entusiastiche, intellettuali, cineasti e artisti di ogni dove cantarono le lodi di Vittorio De Sica e del suo compagno di ventura Cesare Zavattini.
L'America s'inginocchiò di fronte alla grazia poetica emanata da quest'opera così profondamente chapliniana e nel 1950, l'Academy gli tributò l'Oscar come miglior film straniero. Proprio gli Stati Uniti - il paese della 'caccia alle streghe', lo stesso paese che due anni più tardi, nel 1952, ritirò il visto di soggiorno a Charles Chaplin - consegnarono il maggior riconoscimento cinematografico a livello internazionale a De Sica che di colpo venne catapultato tra i grandi cantori del Novecento, con anche il merito di aver riabilitato l'immagine del Bel Paese agli occhi del mondo.
Una testimonianza d'oltre oceano, finora sconosciuta, che conferma la portata universale che questo film ha saputo esprimere, la si trova in una trascrizione radiofonica inviata per posta da un amico, Pio Campa, attore e impresario teatrale che tra gli anni Venti e Trenta aveva condiviso con De Sica il palcoscenico e alcuni set cinematografici. Dalla lettera del 24 dicembre 1949 che accompagna la trascrizione, si scopre che è il figlio di Campa, Roberto, emigrato a New York alla fine della guerra per cercare fortuna, a essere lo speaker della rubrica radiofonica "Letterine natalizie da Broadway", poi trascritta e inviata.
Attraverso l'emittente 'La voce dell'America', la numerosa comunità di emigrati italiani intratteneva quotidiani rapporti a onde corte con la madre patria, come si legge dalla programmazione giornaliera pubblicata su “Radiocorriere” tra il 1948 e il 1953. Si chiudano gli occhi, la testa ben appoggiata alla poltrona accanto alla radio. New York, dicembre 1949, Roberto è on air:
"Per favore signor Direttore, non infierisca contro di me: lo so, lo so che sono il cronachiere dello spettacolo e che mi pagate perché dica di Broadway e di Hollywood, di divi e di dive, di commedie e di films. [...] Vorrei per una volta sola parlarne sotto forma di letterina natalizia. Ho tante cose da dire agli amici italiani. Posso? [...] Caro Vittorio De Sica, come va? Ne sono passati degli anni da quando io l'ho conosciuta, sa dove, al teatro dei Rozzi di Siena su quella scala che porta al palcoscenico: vent'anni, io ne avevo otto esatti allora. Ero piccolo, ma mi ricordo benissimo i suoi occhi quando lei mi strinse a sé affettuosamente: erano gli occhi di una persona buona. [...]
Altri anni passarono e ci ritrovammo, credo per l'ultima volta, ai funerali di Guido Cantini (un nome caro a tutti i teatranti che ci leggono) che stava di casa accanto a lei: allora Sciuscià era già nato, lei aveva i capelli brizzolati, io venivo da esperienze gravi; ma mi ricordo che ancora una volta in quella chiara mattina di gennaio nella chiesa di San Roberto Bellarmino rimasi colpito dai suoi occhi. Gli occhi di una buona persona, che sa capire, che sa compatire, che sa soffrire assieme al suo prossimo. Quegli occhi scuri annegati nel bianco che rimanevano fissi a scrutarti con una specie di distaccata tenerezza.
Mi tornano alla memoria ora, mentre ho sottomano tutte le critiche newyorchesi di Ladri di biciclette. Questi critici le fanno inni ed osanna si scervellano per spiegare ai loro lettori la chiave del suo successo: ma non la possono conoscere. Quegli occhi sono il segreto di tutto il De Sica: sì, la tecnica, l'esperienza acquisita in tanti anni di palcoscenico e di sala di posa, hanno il loro valore. Per non dire della sua intelligenza napoletana. Ma senza la bontà che si legge nei suoi occhi a che cosa avrebbe servito, caro De Sica? A ben poco. Ma voi scherzate? Far capire il valore drammatico di una bicicletta? Qui, che quando in qualche parco passa la bicicletta di qualche nostalgico europeo, la gente si volta incuriosita a sorridere?
Qui negli Stati Uniti d'America, dove l'equivalente della bicicletta, il regalo che si fa per la licenza ginnasiale o il mezzo di lavoro dell'operaio, è l'automobile, magari la vecchia Ford modello T? La bontà che ho sempre letto in quegli occhi ha fatto il miracolo di far accettare anche lo spunto. Vuol sapere caro Vittorio nazionale (come la chiamavo scherzosamente quando stavamo assieme di casa in via Camperio a Milano) cosa pensa di lei la critica ufficiosissima di New York?» [...]
Roberto Campa snocciola una a una le recensioni delle maggiori testate statunitensi dove si ripetono parole come 'capolavoro', 'universale', 'compassione' e 'umano'. Ma l'orgoglio dell'emigrato in cerca di riscatto si concentra tutto nella chiusura della letterina quando dichiara: "Le lunghe code davanti al cinema dove si proietta il suo film, sono un grande regalo che lei ha fatto all'Italia".