La seconda opera cinematografica del cineasta romano Leonardo D’Agostini (dopo Il campione e la serie Tv Luna Park), è la trasposizione del romanzo di Antonella Lattanzi, sceneggiata da Ludovica Rampoldi, una delle più importanti e attive screenwriter del cinema italiano contemporaneo (Il traditore, Esterno notte, Gomorra – La serie) e prodotta da Matteo Rovere, il re Mida di molte produzioni romanocentriche.
Una storia nera (in sala da giovedì 16 maggio), come molti hanno scritto, sembra la risposta italiana a Anatomia di una caduta di Justine Triet (Palma d'oro al 76º Festival di Cannes), difatti D’Agostini insieme a Rampoldi cerca di costruire in maniera fredda, analitica e tagliente un fatto di cronaca nera, dietro al quale si nasconde una storia di ordinaria violenza domestica.
Una madre di famiglia (Laetitia Casta) che da anni subisce le violenze da parte del proprio partner (dal quale ormai è separata), viene accusata dell’omicidio dello stesso. La narrazione si muove sui tipici salti temporali, con analessi che servono a spiegare gli antefatti della storia, i legami tra la protagonista e il coniuge violento, i rapporti con i propri figli e l’attuale amante, per poi giungere al secondo blocco narrativo del film incentrato sulla parte processuale, che vede la donna imputata e il conseguente scioglimento del caso giudiziario.
Il problema principale che fa di Una storia nera il più tipico esempio di pigra e ordinaria fiction televisiva è che il regista non riesce a gestire sul piano espressivo e formale la materia narrativa e i personaggi. Il film manca di sfumature e ambiguità (di cui invece vive il film di Triet), tutto appare didascalico e oleografico, a partire da una macroscopica rivendicazione femminista che sembra uscita da una propaganda #MeeToo, mentre i personaggi tagliati con l’accetta appaiono monodimensionali.
Carla appare immediatamente colpevole di omicidio e la tesi della vicenda ruota attorno al fatto se si è trattato di legittima difesa ed è molto distante dal personaggio di Sandra in Anatomie d’une chute, la cui colpevolezza resta sempre imprigionata in una ragnatela di luci e ombre, facendone un personaggio fiero ma al tempo stesso ambiguo e sfaccettato.
Se si leggono in parallelo i finali dei due film, si evince nuovamente uno scarto fortissimo tra il personaggio di Carla e quello di Sandra. Una storia nera si chiude con la protagonista mentre festeggia il compleanno della figlia più piccola e nonostante il figlio maschio sappia e taccia la colpevolezza materna, Carla si è ricongiunta con il suo nucleo familiare, mentre Sandra nell’epilogo di Anatomie di una caduta è sola con le proprie ombre, unico conforto è addormentarsi abbracciata al proprio cane.
Va anche sottolineato che D’Agostini imbastisce una stereotipica radiografia della famiglia italiana, con luoghi comuni sul mondo adolescenziale e dialoghi semplicistici, dove invece Triet lavora simbolicamente, attraverso figure chiave come il figlio ipovedente e il cane, muto spettatore della tragedia.
Una storia nera resta un prodotto piatto e ordinario, prigioniero di una grammatica scolastica, a tratti quasi pedestre (il flashback di Natale con Sere nere di Tiziano Ferro in sottofondo), che cerca di inseguire disperatamente una certa dimensione thrilling del racconto, attraverso l’impiego del sound di Stefano Ratchev e Mattia Carratello, senza mai centrare il bersaglio ma creando uno sfasamento tra immagine e suono.