Tra grottesco e dramma esistenzialista, Un’altra vita prende forma dal vuoto plumbeo del cattolicesimo bigotto e fa del volto sfigurato del suo protagonista, Jacek, strumento di denuncia contro la decadenza morale di una cittadina rurale polacca. Un’opera compatta e risoluta, scritta e diretta da Malgorzata Szumowska, che già in passato ha narrato sensibilmente l’oscura e multiforme realtà del suo paese.

L’espediente narrativo che mette in moto la parabola tragicomica è la costruzione della più grande statua al mondo del Cristo Re, realmente esistente nella cittadina di Swiebodzin. Alla realizzazione contribuisce anche Jacek, giovane metallaro insofferente al conformismo spicciolo della piccola cittadina ma non abbastanza maturo da emanciparsi dal rapporto invischiante con la famiglia. Sospeso tra un mal celato desiderio di fuga e obblighi morali quali lavoro e matrimonio, Jacek sceglie passivamente i secondi. È una rovinosa caduta in cantiere a segnare un punto di non ritorno per il protagonista e i suoi cittadini: a picco nel busto del Cristo in costruzione, lo vediamo sparire, e la camera lentamente si allontana dal silenzio ovattato del buco nero, in drammatica contemplazione. Quasi fosse una punizione divina per la sua anticonformista distanza dal religioso bigottismo, Jacek è ingurgitato, deturpato in viso e rigettato nel mondo dallo stesso simulacro che avrebbe dovuto proteggerlo, a metafora dell’ipocrisia paesana. Il ragazzo si scontra con un’alterità avara, violatrice di tutti i precetti religiosi così a lungo decantati. In seguito al trapianto facciale, primo in Polonia, sembra non aver coscienza del suo nuovo aspetto se non attraverso gli occhi degli altri; ma non vi è traccia di pietà o carità, se non simulata. Solo orrore e vergogna.

Ricorda l’Invisible Monster di Chuck Palahniuk e il viaggio surreale dell’eroina sfregiata in volto,  Shannon. Entrambi strumenti di esplorazione delle contraddizioni sociali, sono personaggi complessi, alla ricerca di una nuova - e forse più autentica - identità, definita a partire da ciò che si fa e non da chi la società impone di essere. Tuttavia, laddove Shannon rappresenta una creatura  reietta, destinata all’esilio e all’invisibilità sociale, qui il mostro è osannato prima, vilipeso poi.  La morbosità e il voyeurismo della comunità,  sedotta dalla fascinazione del freak, celano il vuoto etico del popolino che tenta di espiare la propria colpa, la perdita della fede, tramite la vessazione del diverso. Con sapiente uso dell’ironia macabra, la regista decostruisce uno a uno i luoghi sacri: la chiesa, la famiglia, la nazione. Ché in questi luoghi, sembrerebbe suggerirci, si celano le reali mostruosità e in nome di essi si compiono le peggiori atrocità. Chi vive ai margini è messo a tacere.

L’intera opera è percorsa dal leit motiv dell’incomunicabilità. Nella campana di vetro delle grette convinzioni, chi parla una lingua diversa non viene capito, chi appartiene a una classe sociale differente viene escluso, persino in famiglia chi ambisce a una vita diversa (e migliore) è considerato un outsider da disconoscere. Solo Jacek sembra capire il linguaggio dello straniero, del povero, dell’ubriacone. Come un moderno Frankenstein, l’essere mostruoso diviene strumento di pericolosa conoscenza: lo rende un monito di ciò che la società è e potrebbe diventare. Libero dalle sovrastrutture sociali è potente filtro in grado di squarciare le maschere pirandelliane e rivelare l’erosione del perbenismo religioso - sedotto dalla sessualità torbida - della politica corrotta, delle ideologie ormai tramontate. Sulle macerie di un nazionalismo stantio, per salvarsi dal declino etico identitario, non resta che andarsene. E se si è destinati alla cristallizzazione nel tempo e nello spazio, non resta che girare la testa e non guardare, come il terminato Cristo Re, col capo rivolto dalla parte sbagliata, eppure fatalmente giusta.