La commozione per una volta non è stonata, né stupisce il profluvio di omaggi, ricordi, testimonianze che in queste ore ci inonda. Per Gigi Proietti, la morte – colpo di teatro – è arrivata nel giorno della nascita, come l’amato Shakespeare. Ma il 2 novembre era nato anche Vincenzo Cerami e, lo sappiamo, fu ucciso Pier Paolo Pasolini, altri due che di Roma e romanità si sono nutriti. Piace pensarli tutti ancora nel Casotto di Sergio Citti, trait d’union tra i tre: piace pensare Gigi, che dalla borgata del Tufello si è fatto capocomico dunque intellettuale, intento a mirarsi i piedi neri per il troppo camminare, a giocare con le dita tra lazzo e osceno con la piccola Jodie Foster (ma ci pensate alla grandezza di un cinema che riesce a farci credere a Paolo Stoppa nonno di Jodie Foster?), immerso nel sogno abitato dalla visione epifanica di Catherine Deneuve.

Casotto, che è un capolavoro, dimostra almeno due cose. La prima è che un certo pubblico abituato al rassicurante, sornione, adorabile Proietti, quello definitivamente diventato dal Maresciallo Rocca in poi presenza familiare, forse nemmeno immagina la spiazzante carriera cinematografica del nostro, specie quella degli anni Settanta. La seconda è che – checché ne dicesse il supremo commediante – non è vero l’assunto più volte reiterato “non ho fatto molto cinema”: a parte che di cinema ne ha fatto eccome, la sua attività sul grande schermo è oltremodo interessante.

Non solo per ciò che poteva essere e non è stato: vent’anni più giovani dei colonnelli, avrebbe potuto (voluto? dovuto?) raccoglierne il testimone, se non fosse che il declino dei divi della commedia all’italiana abbia coinciso con quello del loro cinema, sbarrando la strada ai Proietti che andarono altrove e ai Pozzetto che si costruirono altri spazi. Ma è interessante anche per quel che è stato e solo oggi, tra le lacrime, ci sembra così evidente. Vittorio Gassman, che lo stimava senza condizioni e per di più gli voleva bene, lo introdusse a Mario Monicelli, che in Brancaleone alle Crociate gli affidò tre ruoli, compreso quello della Morte: merito del regista (che lo richiamò per l’avventura americana di La mortadella e la sottovalutato corale di fine millennio in Panni sporchi) aver colto nella voce il segno dell’unicità.

D’altronde Proietti con la voce si impose, e solo uno così poco meno che trentenne poteva dare voce alle maturità decadenti di Richard Burton in Chi paura di Virginia Woolf e Marlon Brando in Riflessi di un occhio d’oro, intercettando le fragilità oltre l’icona come anche nei clamorosi doppiaggi di Sylvester Stallone in Rocky e Dustin Hoffman in Lenny, quest’ultima esperienza giovanile che, ormai campione della scena, Proietti ha elevato alla massima potenza nei virtuosismi del Genio di Aladdin. È vero che ognuno aveva un Proietti del cuore, e aver doppiato il personaggio disneyano nello stesso periodo in cui comandava l’auditel – e comunque continuava a spadroneggiare in teatro – è forse la chiave per capire l’affetto di un pubblico che lo conosce soprattutto come personaggio televisivo, supremo barzellettiere e protagonista di sketch leggendari.

Ma, ci risiamo, sarebbe interessante capire la reazione di questi spettatori di fronte ai film degli anni Settanta, dove, vitale e liberissimo, c’è già tutto il Proietti che abbiamo amato. È chiaro che una straordinaria icona popolare come il Mandrake di Febbre da cavallo sia talmente esplosiva da offuscare il resto, eppure c’è altro oltre il whisky maschio senza rischio. C’è l’intelligenza di servirsi di piccoli personaggi per costruire film-nel-film, un po’ come Franca Valeri, e c’è la capacità di farlo nei film più diversi: i suoi personaggi sembrano scontornati dalla realtà, teatrali nella misura in cui respingono il naturalismo, e non pensiamo solo al celebrato e clamoroso elogio funebre del ladro di La proprietà non è più un furto o al duetto improvvisato con il caro Gassman nell’altmaniano Un matrimonio.

Ladro e mascalzone lo fu in Bubu per Mauro Bolognini, che ebbe l’audacia di usare quella stessa faccia per il ruolo radicalmente opposto dell’inetto rampollo di L’eredità Ferramonti. Addirittura maniaco sessuale per Bordella, folle opus dell’imprevedibile Pupi Avati giovanile, variante grottesca di un discorso sul sesso che comprende il borghese feticista di La matriarca, lo scienziato visionario di Conviene far bene l’amore, il cinico arrampicatore sociale ossessionato da una ragazzina selvaggia in Le farò da padre. Forse quella tra Proietti e il cinema fu una storia d’amore senza passione, ecco, e molto si deve ai fratelli Vanzina che negli ultimi anni ne hanno valorizzato la vis comica (Le barzellette, all’epoca massacrato e che oggi andrebbe rivisto sia come zibaldone borderline sia per i magnifici sketch del nostro: “diciotto, diciotto, diciotto...”; ma anche lo spettacolare episodio de La signora delle camelie, perla surreale dell’altrimenti insulso Un’estate al mare).

Ma che bravi Alessandro Gassmann e Matteo Garrone a recuperarlo ormai anziano in ruoli inattesi: lo scrittore da Nobel de Il premio è il trionfo della misura attraverso un cripto-omaggio a Vittorio; e come Mangiafuoco in Pinocchio incarna il teatro stesso, celebrazione di un artista che con la sua Bottega ha formato attori oggi popolarissimi. Lo vedremo prossimamente Babbo Natale, pronto a darci l’ultimo regalo, ma nel frattempo ci piace pensarlo ancora Cavaradossi, amante della Tosca chiuso a Castel Sant’Angelo, nella notte che precede la condanna al patibolo, mentre canta in duetto con la città che oggi lo piange e insieme ride: “nun je da’ retta Roma”, ché tanto uno così non muore mai.