Veleno è un film piccolo, quasi a “conduzione familiare” come la masseria del protagonista, Cosimo Cardano (Massimiliano Gallo), ma allo stesso tempo potente e determinato come sua moglie Rosaria (Luisa Ranieri) e come solo alcune donne del Sud sanno essere. Scritto e diretto da Diego Olivares, 52enne regista campano specializzato nella scrittura di dialoghi in ‘lingua’ napoletana (qualità che spicca nel film), e presentato fuori concorso durante la Settimana internazionale della critica a Venezia 74, Veleno è girato nella terra dei fuochi e di fuochi la pellicola è costellata sin dall’incipit: un incendio appiccato da camorristi ad una stalla con 100 bufale, i cui muggiti di dolore e spavento ci feriscono le orecchie preannunciando il tema del film.
Il veleno è quello che scorre nelle falde acquifere della Campania (e nelle vene di uno dei protagonisti ammalato di tumore) a causa del malcostume reiterato della malavita organizzata di sotterrare rifiuti tossici e container di varia provenienza, nel cuore della terra Campana, grazie al fruttuoso racket gestito dal clan della famiglia di Donato Vasile (Nando Paone) e dell’avvocato Rino Caradonna (Salvatore Esposito). Costoro puntano ad un ampliamento del terreno adibito a discarica, procedendo agli “espropri” dei terreni circostanti, grazie ad un accurato lavoro di “persuasione” dei loro proprietari svolto a suon di soldi e ritorsioni. Nell’occhio del mirino, la famiglia di Cosimo ed Ezio Cardano, rimasti ultimi e soli a difendere la loro masseria dall’avanzamento degli imprenditori camorristi.
È un film che deve gran parte del suo substrato linguistico ed espressivo all’epoca post “Gomorra” ed a Saviano stesso, poichè molta dell’aria che respirano i suoi personaggi deriva da una realtà che per la prima volta ha guadagnato la dignità del racconto grazie al romanzo dello scrittore sotto scorta. Non a caso uno dei suoi protagonisti, l’avvocato 35 enne aspirante sindaco Rino Caradonna è interpretato da Salvatore Esposito (per di più omonimo di uno dei latitanti più pericolosi d’Italia) già noto al grande pubblico per il ruolo di Genny Savastano nella serie televisiva Gomorra.
La trama è costruita sui due filoni principali del racconto che seguono le vicissitudini personali delle due “famiglie” contrapposte, quella dei Cardano e quella dei Caradonna (una particolare assonanza pure dei cognomi ci suggerisce indubbiamente che i due “clan” abbiano qualcosa in comune...), nonostante non si tratti propriamente di due clan, ma di un clan e di una famiglia “per bene”. In realtà nella vita, come nel film, tutto si confonde, non esistono più i buoni a tutto tondo e i cattivi assoluti, è la rivincita del grigio, sul dicotomico bianco e nero. Colui che per tutta la durata della pellicola ci viene “venduto” come abile affabulatore del malaffare, l’avvocato appunto Caradonna, ci sorprenderà nel finale con un atto tanto crudo quando cosparso di un sapore amaro di impossibile redenzione.
L’eroe positivo, quello che inizialmente pare deciso a combattere contro il malaffare, Corrado, finirà per arrendersi al male ed alla malattia che lo divora, al veleno che la sua stessa terra gli ha somministrato e che in un primo tempo si ostinava a negare. L’unica forma di speranza, forse, un messaggio positivo, si nasconde nel grembo e negli occhi profondi di Rosaria (Luisa Ranieri): porta in sè il mistero della vita che continua e della fede che, nonostante le incursioni martellanti di superstizione e magia, mantiene saldamente assieme la triade di valori societari: famiglia, terra e amore.
Un dato estetico assai interessante da rilevare è la scelta degli attori. Non può essere un caso il fatto che dalla parte dei “buoni” siano stati scelti prevalentemente attori di bell’aspetto, (Ranieri, Gallo, Miriam Candurro - la cognata) mentre i cattivi siano stati per lo più caratterizzati da un aspetto poco gradevole (l’avvocato grassottello ma ben vestito), lo zio Donato (Paone, credibilissimo e pertinente in una delle sue rare incursioni in film non comici) dai capelli unti, naso adunco, interessi pedofili, la madre dell’avvocato, grassa e spietata. Allo stesso modo per la “terra avvelenata” è usato un doppio registro di immagini, le ampie carrellate sulle distese di terra verde coltivata e solcata dal trattore dell’agricoltura, e le immagini mosse e “tormentate” sulla terra arida rovesciata a ricoprire il veleno in essa seppellito.
Dunque film di denuncia, o anche un film d’amore? Per noi Veleno si sottrae a qualsiasi definizione rigida di genere, perchè parla di mafiosità per due ore senza mai pronunciare la parola “camorra”, parla di amore senza cadere nei topoi più abusati nei melodrammi del genere Voglia di tenerezza o My life. Si tratta di un film capace di raccontare la vita per quello che è in una radiografia dei piccoli grandi gesti quotidiani che mettono ciascuno di noi dalla parte di chi la vive, ma non necessariamente di chi ha ragione o torto.