Claude Chabrol è l’occhio del maligno, come il titolo del suo sesto lungometraggio, così esatto nel definire la personalità di un autore che per mezzo secolo ha scrostato la pelle imputridita della borghesia con il gioioso sadismo di chi intende picconare un sistema malsano. Nella sua opera demistificatoria, Chabrol aprì le danze già prima di mettersi dietro la macchina da presa, quando sulle pagine dei Cahiers contestava il “cinema di papà” ed incensava i maestri non ancora riconosciuti del cinema d’oltreoceano. Compreso, va da sé, Alfred Hitchcock, nume tutelare del giovane cinefilo fattosi regista, il cui spirito aleggia ne L’occhio del maligno, film pensato a partire da un fatto di cronaca americana che non è il caso di svelare ora per ovvi motivi di suspense.
Le critiche che vengono mosse a questo lontano e per certi versi accantonato lavoro di Chabrol si indirizzano prevalentemente sulla costruzione del racconto, dominato dalla voce narrante del protagonista che ricorda la storia a posteriori. La scelta fu imposta da un improvviso dimezzamento del budget che impedì buona parte delle riprese programmate in Germania. Ma, se ribaltiamo il discorso e dimentichiamo le implicazioni finanziarie, ci scontriamo con un film che proprio in virtù di questa forte se non invadente struttura romanzesca sembra provenire da un abisso, come un novello William Holden galleggiante a cui tuttavia la morte non ha concesso la possibilità di connettersi con il mondo dall’oltretomba. Regista della crudeltà, Chabrol segue il percorso del suo mediocre eroe senza futuro fino alla discesa agli inferi, obbligandolo a restare verticale anche oltre la conclusione del film, laddove il suo amore a senso unico può esprimersi solo nell’esercizio di un ricordo plasmato dalla e sulla immagine che egli stesso aveva creato della donna amata.
Intuendo ciò che Michelangelo Antonioni avrebbe meglio approfondito qualche anno dopo, ricorre all’ambiguità nascosta dentro l’oggettività delle foto, articola un personale e malato discorso amoroso attraverso una sfida al ceto sociale che l’oggetto (alias Stéphane Audran, moglie e musa, per la prima volta nei panni di Hélene, archetipo dell’angelo del focolare borghese) rappresenta e abita, afferma i principi di una comunicazione impossibile determinata anzitutto dall’incapacità di comprendere la lingua dei rivali (il tedesco). Sfrutta l’inquietante tavolozza del terso bianco e nero per stilizzare la vicenda e i suoi abitanti fino all’allontanamento dalla realtà, teorizza un cinema qui ad una fase appena post embrionale senza collocarsi radicalmente nel flusso della nuova ondata francese della quale è comunque tra i massimi esponenti: L’occhio del maligno è il palinsesto di un autore in fieri, uno studio che è anche un compendio di ciò che, col senno di poi, è stato il clamoroso, spietato, beffardo cinema di Chabrol.