Vermiglio, nei pressi del Passo del Tonale, inverno 1944. Una numerosa famiglia dorme rannicchiata in una stanza, è inverno. Poi si raduna nella comunità: una scuola e una chiesa. Sono già due misure di grandezza diverse: la casa e il paese. Poi arriva un soldato italiano, siciliano, e le traiettorie si ampliano: dal paese al Paese, dal nord delle montagne si è portati a immaginare il sud del mare. La famiglia protagonista guarda una cartina della Sicilia, si stupisce, ammira le illustrazioni, il piccolo paese si trova a mappare una grandezza e una traiettoria più ampia.
Per gli abitanti di Vermiglio la guerra in corso è quella cosa strana che porta via i figli, che nobilita chi c’è stato, denigra chi è scappato, ma anche qualcosa non del tutto comprensibile: dipende ancora dalla misura con cui la si osserva. Quando arriva un soldato disertore, questo viene accolto perché a deciderlo è il padre/maestro del paese. Con il suo arrivo a Vermiglio arriva una scossa di disordine. Nel tempo di quattro stagioni, mentre il mondo si sta avviando verso la fine della seconda guerra mondiale, le vite di tre sorelle si preparano a cambiare.
Maura Delpero, alla sua seconda regia dopo l’esordio di Maternal, attinge alle proprie radici per realizzare un film che vive una zona di mezzo tra un’epica di paese e un racconto di formazione famigliare. Il punto di partenza evidente è il ritratto etnografico dell’Olmi de L’albero degli zoccoli –di cui forse sacrifica l’approccio radicale, ma non quello radicato – e alla funzione di dedizione a un mondo ormai perduto fatto di usanze, costumi, dialetti e al lavoro con gli attori non professionisti, aggiunge uno sguardo più ravvicinato sul piano intimo e sentimentale.
Ma la doppia misura attorno a cui si gioca il lavoro di Delpero emerge nel rapporto tra il dentro e il fuori, tra l’incluso e l’escluso, tra una cultura moderna e una premoderna. Mentre i paesani lavorano la terra e abbattono gli alberi, il padre – che è anche maestro e “leader” del paese – insegna a scuola (per bambini e per adulti), razionalizza, pulisce il dialetto in un italiano scorrevole, educa le opinioni, giudica le azioni, sanziona, culturalizza…
In Vermiglio le quattro stagioni coesistono: da un lato come ritmo circolare non linearizzato dalla modernità, dall’altro come arie musicali suonate da un grammofono (così come gli attori non professionisti con quelli professionisti). Così facendo, la dialettica tra dentro e fuori si mescola in una messa in discussione del rapporto tra terra e territorio, tra piccola e grande patria, tra senso oggettivo/spaziale e senso soggettivo/sentimentale.
In questo modo la storia di un paese straborda i propri confini non solo verso l’esterno, ma anche e soprattutto verso l’interno. Vermiglio è anche la storia di una famiglia e di tre sorelle che covano tre desideri e tre individualità diverse: la prima il sentimento e la maternità, la seconda il sesso e il vizio, ma anche la colpa e l’espiazione, la terza lo studio e la curiosità.
Maura Delpero mette come fulcro il tema della maternità che si porta dal suo precedente Maternal – evocando echi di film italiani contemporanei come Piccolo corpo di Laura Samani – e lo traduce in altre misure di grandezza: il sentimento (speranzoso o angosciante che sia) si misura ora con le mani su una mappa o con il conteggio dei giorni di attesa per una lettera.
Vermiglio parla di una memoria collettiva, storica, culturale nella quale si immerge una storia intima di nascita e rinascita, di crescita, di bivi di vita. E per farlo spazializza, ritrae un paese che si apre, un’incontaminazione che si contamina, una frattura a cui imparare ad attribuire uno spazio di luce.