“La naturalezza è una posa difficilissima da mantenere”, faceva notare Oscar Wilde. Non sembra invece affatto un problema per Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che in questi anni si stanno ritagliando una loro personalissima via al cinema del reale, passando dal documentario propriamente detto a forme ibride e singolari come questo Vittoria, presentato a Venezia 2024.

In esso, la vera storia di adozione di una bambina bielorussa da parte di una famiglia di Torre Annunziata viene rievocata, a distanza di otto anni, facendo interpretare i ruoli principali agli stessi protagonisti della vicenda reale. Mattatrice assoluta, appunto nel mettere in scena se stessa, è Marilena Amato: parrucchiera con cipiglio da guerriera sin dalla pettinatura, è fermamente decisa ad avere una figlia femmina nonostante il parere contrario del marito, cui i loro tre figli maschi parrebbero ben sufficienti; e, se i tagli cesarei precedentemente subiti le sconsigliano una nuova gravidanza, a fermarla non saranno certo le tortuose procedure burocratiche, i rilevanti costi o lo sbigottimento altrui.

È rinfrancante il racconto di questa madre a tutto tondo che non viene santificata in alcun modo, ma della quale si mostra anzi con schiettezza la tendenza a trovare vie illegali rispetto alle norme internazionali sull'adozione (che non consentono di scegliere il sesso del bambino), a falsificare bellamente firme altrui e a non prestare troppo ascolto alle istanze dei propri cari. Così come i conflitti fra i personaggi non si sviluppano su un gioco di grandiose opposizioni ma, più realisticamente, su freddezze e non detti.

Con uno stile che rimanda a Jonas Carpignano e ai fratelli Dardenne, Cassigoli e Kauffman mettono assieme il ritratto accorato e intimo di una storia privata, che si sarebbe potuta tranquillamente declinare in un generico dramma borghese, con un tratteggio etnografico molto specifico dell'universo napoletano, già al centro dei loro precedenti Butterfly del 2018 e Californie del 2021 (peraltro con suggestioni evidenti ci si trovi in un mondo narrativo unitario).

Le vicende si snodano così su quello che non è solo uno sfondo, ma una parte essenziale della realtà raccontata, fra i pranzi di famiglia e i matrimoni, il padre morto di cancro dopo aver lavorato all'Ilva e il figlio grande in procinto di migrare al Nord, le cartomanti che pongono questioni esistenziali e le clienti che fra un bigodino e un colpo di phon fungono da coro greco.

Cassigoli e Kauffman filmano tutto come se fossimo in un documentario, pedinando i personaggi con camera a mano traballante quando sono in movimento, e passando dall'uno all'altro con messe a fuoco incerte durante i dialoghi. E se la convergenza fra documentario e fiction è una caratteristica precipua dei nostri anni, Vittoria ha un sapore ancor più marcato da “storia finta eppure totalmente vera”, con attori che portano in scena un re-enactment di snodi fondamentali della propria vita improvvisando battute sul canovaccio dei registi.

Ed è forse proprio per questo che, dopo lo splendido finale, Vittoria ci lascia in bocca quell'aroma di buono che è sempre bello sentire uscendo da una sala cinematografica.