Lo spirito neorealista che anima Vivere in pace è evidente sin dalla voce che apre il film: “Questa storia non è una storia inventata. I personaggi sono veramente vissuti. Anche il paesino dove essa si è svolta esiste davvero. Gli uomini in quel tempo erano occupati ad uccidersi tra di loro, ma il paesino così in alto non aveva interessato molto quelli che facevano la guerra. Nel paesino non mancava nulla: la chiesetta per battezzare quelli che nascevano, il piccolo cimitero per seppellire quelli che morivano, il campanile per dire le ore a quelli che vivevano”. Senza esplicitare il luogo preciso o definire con esattezza il periodo storico, il narratore ci introduce in un’atmosfera di pace, come se il conflitto (che scopriamo essere la seconda guerra mondiale) lambisse appenale terre dove è ambientata la vicenda. Questa situazione di quieta routine viene invece turbata dall’invadenza della Storia: due soldati americani, fuggiti dalla prigionia tedesca, vengono dapprima nascosti da una ragazza e dal suo fratellino nella loro stalla e poi accolti dall’intera famiglia guidata da zio Tigna (Aldo Fabrizi), che accetta di nasconderli e di curare uno di loro (il nero Joe).
Consapevoli di correre un grande rischio a causa delle disposizioni dei tedeschi che puniscono con la morte chiunque nasconda i fuggitivi, i contadini disobbediscono non tanto per princìpi politici quanto invece per un ideale di umana fratellanza: “La colpa è degli uomini che non si vogliono più bene”, dirà Tigna per spiegare i disagi e le sofferenze portati dalla guerra. Proprio l’attenzione della sceneggiatura ai buoni sentimenti, come l’altruismo e il riconoscersi vicendevolmente uomini (ciò vale anche per il dialogo finale tra Tigna e il tedesco, girato magistralmente come fosse un duello tra pistoleri in un film western), è ciò che impedisce al film di cadere da un lato nel bozzetto approssimativo e dall’altro nel grottesco macchiettismo, perché conferisce un carattere vero, reale, tridimensionale ai personaggi: tutti sono tratteggiati con eguale rispetto ed attenzione, anche se Corinna avrebbe potuto avere maggior spessore, per dare ad Ave Ninchi una gamma più estesa di espressioni.
Fabrizi è il centro nevralgico della vicenda, il vero capofamiglia della civiltà contadina (in casa vivono anche i nipoti che per lui sono come figli, proprio come Franco, il ragazzo che è fuggito dall’arruolamento), ma qui non emerge in quanto Aldo Fabrizi, bensì come protagonista dalla storia: si lascia guidare da Luigi Zampa (che lo dirigerà ancora nel 1951 in Signori, in carrozza!) senza mai andare sopra le righe, anzi trovando in certi momenti (specialmente nei dialoghi con il soldato tedesco o con il segretario fascista) un’economia recitativa che gli rende possibile esprimere mille sfumature di carattere e di pensiero senza esagerazioni. Ciò è perfettamente coerente con il tipo di uomo che gli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Fabrizi) hanno descritto e con la mentalità della società in cui si svolge la vicenda: il titolo Vivere in pace ne rappresenta infatti sia la filosofia di vita sia l’auspicio che alla fine della guerra ogni conflitto sarà risolto. E difatti dopo i drammi e gli scombussolamenti torna la voce narrante a illustrarci una situazione nuova, dove in fondo l’unico cambiamento sta nel succedersi delle generazioni. Il ritorno alla stessa voce che commenta lo stesso movimento di macchina che esplora gli stessi spazi geografici dell’inizio del film, posto in relazione col fatto che la storia si apre con una nascita e si conclude con una morte, è un’evidente metafora della circolarità della vita.