Nuovo approfondimento su alcuni aspetti della carriera di Totò, indiscusso protagonista del cinema d’antan che in questi giorni ha suscitato, nei cinefili riuniti in questa redazione e non solo, nostalgie e risate di gioia; il cinquantenario della sua scomparsa è servito a ristabilire un contatto ideale con un attore classico e atipico nella stessa misura. Totò, oggi, continua a riempire i palinsesti portando avanti quella che in vita è stata la sua vocazione, verrebbe da definirlo ironicamente un companatico televisivo, non per sminuirne la forza ma per evidenziare l’inesauribile comicità di un personaggio che si considerava poco più di un cantastorie al servizio del pubblico, verso il quale ha sempre dimostrato sincera gratitudine.
Negli ultimi anni di vita di Totò, ormai completamente cieco, ha luogo l’incontro con Pasolini che lo vuole nel film Uccellacci e uccellini, primo capitolo di una felice collaborazione a cui si aggiungono l’episodio La Terra vista dalla luna (Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole? (Capriccio all’italiana, 1968), una breve parentesi in cui Totò riesce ancora una volta a mostrare la propria doppia natura, “da una parte il sottoproletariato napoletano e dall’altra il puro e semplice clown, cioè un burattino snodato, l’uomo dei lazzi, degli sberleffi”, come lo definirà il regista che depura il personaggio da ogni cattiveria e teppismo, “il mio Totò”, dirà, “è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica”, la sua è “una sfottitura leggera e mai volgare. Ho cercato di decodificarlo avvicinandomi il più possibile alla sua vera natura”. (Pier Paolo Pasolini, Le regole di un’illusione, a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, 1996).
A far da spalla a Totò troviamo sempre il giovane Ninetto Davoli la cui esasperante ingenuità, sia che i due interpretino un padre e un figlio, due frati francescani o Jago e Otello, spesso e volentieri diviene oggetto di scherno e di rimprovero da parte del più anziano e saggio protagonista al quale Ninetto guarda con devozione e profonda ammirazione.
Uccellacci e uccellini è una favola e come tale è ricca di metafore e magia, a cominciare da un corvo parlante, un’atmosfera misteriosa avvolge la trama lungo la quale si susseguono una serie di prove a cui sono sottoposti i protagonisti, altro elemento essenziale delle fiabe, gli eroi del racconto, spiega Pasolini, “non sembrano però ottenere nessun privilegio: né regni né principesse. Non resta loro, dopo quelle prove, che affrontare altre prove. Nessuna vera e propria favola era mai finita così! (…) la mia è una favola picaresca: le esperienze “a livello della strada” di due poveri diavoli. Ma il picarismo è esso stesso ideologia. Invece la mia favola ha la sua ideologia altrove che nel picarismo (…) La favola che finisce come non deve finire, il picarismo che non dice quello che deve dire: ecco due motivi di delusione. Ma: Bisogna deludere. Saltare sempre sulle braci come martiri arrostiti e ridicoli…Questo dicevo in una mia poesia chiamata per l’appunto Progetto di opere future”.
Con Uccellacci e uccellini l’equilibrio e la sintonia tra i due attori, perfetti nei loro ruoli imperfetti per definizione, raggiunge l’apice espressivo, questi “due personaggi, tipici eroi neorealisti, umili, noiosi e inconsapevoli, vivono la vita senza pensarci”, un’esistenza semplice e innocente immersa in un ambiente desolato abitato da ruderi antichi e moderni, strutture periferiche in costruzione e pievi diroccate di un arcaico medioevo, luoghi senza tempo a prima vista abbandonati.
La solitudine paesaggistica in cui vagabondano Ninetto e Totò provoca un senso di spaesamento nello spettatore, lo smarrimento dei protagonisti nella finzione riflette quello ideologico del regista che apre il film con una significativa dichiarazione di Mao, per la precisione il succo di un’intervista rilasciata a un giornalista americano: «Dove va l’umanità? Bo!».
È un corvo filosofo a farsi carico dei quesiti e delle riflessioni di Pasolini sulla crisi del marxismo, “poeticamente quello anteriore alla morte di Togliatti, patita e vista da un marxista, dall’interno; niente affatto però disposto a credere che il marxismo sia finito (dice il buon corvo: “Non piango sulla fine delle mie idee, ché certamente verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera e a portarla avanti! Piango su di me…”)”.
Sono le bandiere dei funerali di Togliatti a dispiegarsi davanti allo sguardo perplesso di Ninetto e Totò, morte simbolica delle ideologie che il corvo ha provato a condividere con loro, attenti e incuriositi ascoltatori del loquace pennuto, distante dal laconico simile di Allan Poe.
I due protagonisti vivono al di fuori della Storia, diffidenti verso le idee politiche del corvo petulante (che contrastano con canti spensierati sulle note di Carmè, Carmè) finiscono inevitabilmente per mangiarselo, il martirio del volatile arrostito e la conseguente digestione doveva metaforicamente portare secondo Pasolini “all’assimilazione di quanto di buono – di quel minimo di utile – che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità (Totò e Ninetto)”. (Un film di Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, 1966)
Questa risulta essere in breve la struttura del film, che come una fiaba, spiega il regista, non deve essere pienamente capita ed è lo stesso Totò a non afferrarne il messaggio pur rispettandone le scelte: “Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione. (…) Sono state scene faticose, molto faticose, camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili. Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui perché poi i risultati sono molto belli, non sono comuni”.