La commedia romantica può rinnovarsi? Soprattutto quando all’atavico tema dell’amore si intreccia quello della malattia, il rinnovamento sembra una missione persa in partenza, sempre che sia mai stato un obiettivo. Con We Live in Time il regista John Crowley di certo modernizza il linguaggio di questo filone, scegliendo di optare per una narrazione che non indugia sui momenti di decadimento fisico, non dipinge il progressivo aggravarsi della condizione di salute né si sofferma su discorsi malinconici o strappalacrime.
Lo fa dall’inizio, con un taglio deciso nel momento in cui alla coprotagonista Almut (Florence Pugh) viene diagnosticato un tumore: We Live in Time -Tutto il tempo che abbiamo, come recita la traduzione italiana, sottolinea a più riprese l’importanza di vivere a pieno ogni momento che si ha a disposizione, ed infatti delle due ore di film Crowley sceglie di soffermarsi solo sui momenti che ritiene più significativi, complice una narrativa non lineare che salta continuamente tra presente e passato.
Non retorico ma comunque commovente e significativo in numerose scene, come quella in cui marito e figlia radono i capelli della mamma all’aperto, in giardino, normalizzando un momento difficile senza renderlo drammatico, perché anche nel concetto di famiglia si riscrivono le regole, immaginandone una sincera e trasparente, che, sebbene romanticizzata, costituisce un modello realistico e positivo.
A questa impressione di positività e trasparenza offre un contributo significativo il personaggio di Tobias (Andrew Garfield), espressione di una mascolinità positiva, priva di tratti stereotipicamente maschili ma senza risultare falsa in un vuoto ribaltamento dei ruoli tradizionali (come quello del marito che si occupa solo dei figli mentre la moglie lavora fino a tardi in molte produzioni contemporanee con ‘protagonista femminile forte’).
La recitazione autoironica, a tratti sopra le righe, di Garfield si sposa benissimo con quella di Pugh, che risponde, anche fisicamente, alle esigenze di un personaggio carismatico e sicuro di sé: la sintonia tra i due attori protagonisti è uno degli ingredienti chiave per la credibilità della loro storia.
Certo non mancano i cliché da commedia indie romantica, tra giri sulle giostre e shopping in negozi di cibo biologico, elementi codificati della rappresentazione di una relazione tra due millennials. E se lei è una chef la cui specialità è la cucina europea moderna, le scene di assemblaggio di piatti sofisticati fanno da contraltare alle incursioni di snack inglesi, dalle Jaffa cakes ai cereali Weetabix, che punteggiano il romanticismo di cultura pop.
Un mix di riconoscibilità e tenerezza, che strizza l’occhio al pubblico a cui si rivolge, che la cosiddetta sick lit la conosce o magari la consuma fin da adolescente, così come conosce 500 giorni insieme e le manic pixie dream girls di cui Almut porta i segni. Un po’ di ironia dolceamara non guasta mai per sdrammatizzare temi come l’amore e la morte, e qualche risata per bilanciare le lacrime è un giusto compromesso: We Live in Time fa più di questo, ma il rischio è quello di rimanere ancorato a una formula stantia per un pubblico che vuole una storia d’amore commovente – con o senza risate.