Molti dei miei film iniziano con delle mappe stradali invece che con delle sceneggiature. A volte è come volare alla cieca, senza strumenti. Voli per tutta la notte e al mattino arrivi da qualche parte. Vale a dire: devi provare ad atterrare da qualche parte, così il film può finire.
Paris, Texas è venuto fuori in modo diverso dai miei film precedenti. Ancora una volta, abbiamo volato tutta la notte senza strumenti, passando attraverso qualche tempesta, ma questa volta siamo atterrati esattamente dove intendevamo. Dall’inizio, il film ha avuto una traiettoria più dritta e una destinazione molto più precisa. E dall’inizio, aveva anche una storia più credibile rispetto ai miei film precedenti. E volevo raccontare quella storia fino alla fine.
Wim Wenders, dal pressbook internazionale del film


È quasi impossibile non cominciare dal tema del viaggio e del movimento che, come un possente fil rouge, attraversa tutta l’opera wendersiana finendo, in molti aspetti, per diventare quasi una vera e propria cifra stilistica. A ben vedere quello che abbiamo di fronte non è, in ogni caso, un semplice aggiornamento della poetica del Wanderer, del viandante […], bensì una realtà molto cinematografica che fa propri, ridefinendoli, gli stilemi del road movie americano e, addirittura, come dimostrerebbero film quali Paris, Texas o il più recente Non bussare alla mia porta, il vecchio western alla John Ford. L’essere in viaggio del cinema di Wenders, insomma, risulta un essere in movimento fra i territori del cinema classico, una costante visita affettuosa e amorevole ai luoghi deputati dell’immaginario.
In primo luogo a muoversi è proprio, fisicamente, il regista che cerca le proprie location nei quattro angoli del globo terracqueo. Dall’attraversamento della Repubblica federale tedesca nella Trilogia della strada – Alice nelle città, che, però, non disdegna sequenze americane o olandesi, Falso movimento e Nel corso del tempo – alla Spagna di La lettera scarlatta […]; dall’America di Paris, TexasHammettCrimini invisibiliLa terra dell’abbondanza e Non bussare alla mia porta, al Portogallo di
Lisbon Story, dal Giappone di Tokyo-Ga e di Appunti di viaggio su moda e città fino alla Cuba di Buena Vista Social Club. […]
A restringere il campo, però, ci si accorge subito che tre sono i veri e propri poli entro i quali si muove l’intera filmografia wendersiana: la Germania, sempre intesa come
Heimat cui fare costante riferimento, la culla entro cui tornare dopo le peregrinazioni di Ulisse, l’America come seconda patria d’elezione (quella del cinema classico e delle letture sulle quali si è formato il giovane Wenders) e il Giappone come punta estrema della cultura del consumismo (ma non solo). In un certo senso, se la Germania sembra rappresentare, per il regista, il ‘passato’ e l’America, con tutte le sue contraddizioni sofferte, il ‘presente’, il Giappone è stato, fino a un certo punto del percorso esistenziale e creativo dell’autore, una precisa possibilità di ‘futuro’. […]
Ma a muoversi, nel cinema di Wenders non è solo la macchina da presa. A muoversi nel suo cinema sono, prima di tutto, le storie e i personaggi: perché fahren (viaggiare) è
erfahren (esperire). Uno dei motivi di un costante ‘mettersi in strada’ è da ricercarsi proprio nel background culturale del regista: Wenders, lo ricordiamo, è tra gli autori nati appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in un periodo in cui, dopo la scoperta dell’orrore dei campi di concentramento e dopo che la Germania si era colpevolmente macchiata del sangue di milioni di persone, era davvero molto difficile dirsi Ein Deutscher. L’uomo tedesco della generazione di Wenders si sente, da questo punto di vista, obbligato a elaborare il proprio passato, dopo la rimozione collettiva dell’Era Adenauer e della Ricostruzione, guardando con circospezione quelle che potevano essere le vette più sublimi conquistate dalla propria cultura di appartenenza (si pensi alle pagine di Goethe riprese, ma trasformate, aggiornate e in parte anche contraddette in Falso movimento). Alla ricerca di una nuova identità, a Wenders e ai suoi personaggi non resta altra alternativa che cercare fuori di sé e al di fuori del proprio contesto culturale e territoriale una propria ragione esistenziale.
Giovanni Spagnoletti con la collaborazione di Alessandro Izzi, [E]motionpictures: il cinema di Wim Wenders, in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007


L’origine di Paris, Texas, è anche nell’Odissea che avevo letto per la prima volta a Salisburgo. Secondo me il suo mito non può prendere corpo nel paesaggio europeo mentre trova la sua giusta collocazione nel western americano. La città di Paris, Texas è imposta alla nostra attenzione per il suo nome: si trova nel nord del Texas, al confine con l’Oklahoma, sul Red River, Nel film non si vede mai ma se ne parla a proposito della vita della madre di Travis. Lo scontro dei due nomi, Parigi e Texas, che ai miei occhi sintetizzava l’essenza dell’Europa e dell’America, ha catalizzato all’improvviso molti elementi della sceneggiatura: il nome della città simbolizza la lacerazione di Travis; lì si sono incontrati suo padre e sua madre e lì è nato lui. La battuta preferita del padre (“Ho incontrato la mia donna a Parigi”) e la sua scomparsa, che aveva fatto soffrire la madre e il figlio, rendevano Paris, Texas sinonimo di separazione. Per Travis era diventato un luogo mitico, dove doveva ricomporre la sua famiglia.
Wim Wenders, 1987, in Wim Wenders, a cura di Bruno di Marino, Dino Audino Editore, Roma 1994


Già all’inizio di Paris, Texas l’accompagnamento musicale di Ry Cooder descrive benissimo la dimensione entro la quale si colloca questo film di Wenders […]. La strepitosa intuizione strumentale del musicista americano entra perfettamente nella risonanza spaziale del paesaggio western (Devil’s Graveyard, Big Bend) attraversato da Travis al suo primo apparire sullo schermo, ma contribuisce anche a riproporre immediatamente la dimensione psicologica ed esistenziale da cui vengono da sempre i personaggi di Wenders. […]
Come Ulisse, che ha percorso il Mediterraneo vagando nello spazio geografico scandito dal tempo dell’erranza, il personaggio-uomo wendersiano, che ha tentato di conoscere la realtà tardo moderna attraverso questa lunga deriva, si trova inquadrato dalla cinepresa (lo sguardo del falcone), che lo scopre come un insetto, una preda assetata, decisa a seguire fino allo stremo delle forze un imperativo categorico che lo spinge oltre.
La maestosa e imponente scenografia western, che fa da sfondo alla sequenza, sembra così realizzare, dal punto di vista visivo e ambientale nel migliore dei modi, un desiderio dello stesso regista, che da sempre ha sognato di girare un film in un siffatto contesto paesaggistico, ma raccoglie anche e soprattutto sul limite di una frontiera, diventata oramai mitica, l’ultimo sforzo di un naufrago dell’erranza sbalzato dalle onde (in questo caso sonore) sulla terra ferma. […]
Questo è un viaggio importante per Travis e Hunter, ma lo è altrettanto per Wenders che vi esprime, in modo adeguato, la sua concezione del cinema di movimento o meglio il suo particolare modo di intendere.
Lo svincolo della Highway 14, inquadrato dal basso, da cui inizia questa parte del film, è in sé un vero e proprio monumento fotografico, che testimonia la sensibilità con cui Wenders si accosta agli ‘artefatti’ della civiltà industriale protesi sul paesaggio e conferma la sua particolare capacità nel ridare fotograficamente, le strane presenze architettoniche ed oggettuali che popolano quest’universo tardomoderno. […]
Questo è il primo film di Wenders in cui il personaggio principale cerca con ostinazione una meta e la raggiunge, è il primo film in cui il percorso di Travis assomiglia veramente a quello di Ulisse.
Bernardo ValliLo sguardo empatico. Wenders e il cinema nella tarda modernità, Quattroventi, Urbino 1990


Capisco che la repulsione e l’attrazione che Wim prova verso gli Stati Uniti non sono soltanto frutto del fascino subito da un giovane cineasta europeo, e tedesco, alla ricerca del suo posto al sole – ma fanno parte della indagine emotiva che impegna un artista in cerca della verità universale.
I suoi film si muovono al limite dell’alienazione dell’animo umano e ci fanno pensare, sentire e capire che l’alienazione aumenta se si abbandonano le riforme sociali e se, eventualmente, abbandoniamo noi stessi.
Che una persona ne abbandoni un’altra è già tragico. Ma se abbandonate voi stessi è un vero suicidio. I suoi film ruotano intorno a questo tema assai nebuloso senza imporre al pubblico un modo per attraversare questa bruma. Con Wim il dentro è il fuori, il fuori è il dentro, l’alto è il basso e il basso è l’alto. Qualunque sia la strada presa dal suo personaggio si tratta di un cammino che finisce lì dove non è mai cominciato, perché questo è il cammino che il pubblico prende in prestito per il prezzo di un biglietto d’entrata. […]
Io lo grido ai quattro venti, Paris, Texas è un successo commerciale e artistico – un’emozione dovuta da lungo tempo al talento che ha Wim di descrivere un’umanità alla deriva. La sua ricerca della verità socratica è essenziale. Wim non ha bisogno di una grande prima ‘son et lumière’. I suoi film toccano nel più profondo senza bisogno di neon e di lustrini perché lasciano sempre spazio per il molteplice.
Samuel FullerAnche l’assenza di storia ha un inizio, un centro e una fine, in Wim Wenders, a cura di Giovanni Spagnoletti, EuropaCinema, Roma 1991