Il titolo è un errore grammaticale. Nella lingua inglese, infatti, per indicare il plurale della parola wolf (che significa lupo) dovremmo scrivere wolves. Invece, l’ultimo film di Jon Watts utilizza lo sgrammaticato wolfs. Si tratta al tempo stesso di una strizzata d’occhio e di una bussola da seguire per orientarsi all’interno di questo lavoro.

Già, perché da una parte sarà proprio l’errore a essere il tema principale del progetto (pensateci: la storia prende via proprio da uno sbaglio, seppur accidentale; i due protagonisti non potranno mai cadere in fallo e di mestiere sono incaricati di aggiustare sbagli altrui; il tempo sta scandendo le loro carriere – meta-cinematografiche? – dimostrando come sia poco consigliato, di nuovo, insistere con questa professione quando il corpo chiede a gran voce di soddisfare altri ritmi e attività), dall’altra una parola non presente nel vocabolario anglofono permette di connotare ancor più da vicino i due protagonisti. Clooney e Pitt sono infatti lupi solitari (come recita il sottotitolo italiano) incapaci di immaginare un collega, un partner, qualcuno con cui collaborare. Incapaci, insomma, di prevedere un plurale.

Così, sotto la patina leggera, cazzara e nostalgica di Wolfs – Lupi solitari (da qui in avanti solamente Wolfs), si cela un’appassionata lettera d’amore. Dopo aver raccontato le gesta del supereroe più famoso al mondo (è infatti sua la più recente trilogia dello Spider-Man interpretato da Tom Holland), Jon Watts getta la maschera e racconta quelli che secondo lui sono i veri eroi del contemporaneo: persone sole e solitarie, che si muovono nell’ombra, in silenzio, lontano dai riflettori, per cercare di migliorare (nel loro piccolo) situazioni scomode e delicate che necessitano di una “correzione grammaticale”.

Vecchie glorie dei bei tempi andati? No, solamente vecchi. In tal senso, l’omaggio ai corpi di Clooney e Pitt è forse quanto di più semplice, elementare e sbagliato ci sia all’interno del film (siamo ancora fermi ai dolori alla schiena o agli occhiali da vista per proporre l’autoironia incentrata sulla decadenza fisica?), ma proprio per questo riuscito, poiché in grado di mostrare il fianco alla componente più umana e genuina che Watts vuole esaltare.

Wolfs diventa quindi un cocktail agitato, non mescolato (giusto per citare uno dei punti di riferimenti del film), che spazia dalla slapstick comedy all’estetica al neon di John Wick, puntando tutto sull’alchimia pressoché perfetta tra i due divi al centro della scena che, nonostante debbano la loro ultima collaborazione cinematografica a quasi vent’anni fa (era il 2008 quando i fratelli Coen li coinvolsero per Burn After Reading), sono in totale sintonia e a proprio agio, lavorando per sottrazione, in levare, invece che per accumulo.

Esattamente come il loro “mentore”, ovvero il Mr. Wolf interpretato da Harvey Keitel che, in Pulp Fiction, risolveva problemi (guarda un po’), i lupi di Wolfs devono uscire dalla propria trincea, imparare a scendere a compromessi ed empatizzare con chi sta loro accanto, senza giudizio. E in tutto questo, non c’è nessun errore grammaticale che tenga.